Per la segretaria di stato all’Economia, «un accordo buono per tutti», un «accordo storico» per la Ue, addirittura «una rivoluzione» per il ministro francese delle Finanze, Bruno Le Maire. Tutti contenti al G20, l’organizzazione che riunisce 19 paesi più la Ue (e vari «invitati permanenti»), che rappresentano l’85% del commercio mondiale, più del 90% del pil della Terra e due terzi della popolazione: dopo due giorni di discussioni, con qualche momento di suspense, l’accordo per una tassa mondiale sulle multinazionali è stato approvato a livello politico.

L’ACCORDO, ANCHE SE CI VA con mano leggera, mette fine a un periodo di concorrenza fiscale al ribasso, in trent’anni le tasse di sono dimezzate per i grandi gruppi. Questo accordo che imporrà, non prima del 2023, una tassa minima del 15% sugli utili delle multinazionali e che farà entrare in vigore un sistema di ripartizione equa, in funzione dei profitti realizzati in ogni paese, era stato definito all’Ocse (approvato da 131 paesi su 139) e già approvato al G7 a giugno. Il varo definitivo verrà però solo nel prossimo ottobre, al G20 finanza di Washinton. Nel frattempo dovranno essere precisati molteplici «dettagli».

IL PRIMO: CONVINCERE i «reticenti», degli emergenti (Nigeria, Kenya, Perù, Sri Lanka, e dei paradisi fiscali come Barbados o Grenadine), ma soprattutto la fronda all’interno della Ue, guidata dall’Irlanda (che attrae sedi di multinazionali con la tassa sulla carta al 12,5% che in realtà è molto più bassa), con Ungheria, Estonia, che non sono nel G20. Entro ottobre dovranno venire definiti vari parametri, a cominciare dalle modalità di calcolo della quota degli utili delle multinazionali da riallocare ai paesi dove effettivamente svolgono l’attività. Intanto, per rientrare nel perimetro della tassa, la multinazionale dovrà essere gigante: più di 20 miliardi di fatturato globale e per far scattare il prelievo, profitti superiori al 10%.

LA FRANCIA, MA ANCHE ALTRI paesi europei, vorrebbero che la tassa fosse superiore al 15%. I paradisi fiscali dovrebbero essere messi in scacco, perché se continueranno a imporre tassi bassi, la multinazionale dovrà comunque pagare la differenza. Ma l’euforia per la tassa globale non nasconde la preoccupazione maggiore per la variante Delta, che rischia di fermare in volo il «rimbalzo» economico in corso dopo i primi assalti del Covid. La constatazione che finché tutti non saranno usciti dalla pandemia nessuno lo è, si scontra con la realtà: nella Ue ci sono i vaccini per arrivare al 70% di immunizzati entro fine estate (anti-vax permettendo), ma in altri continenti la vaccinazione è in netto ritardo, in Africa meno del 2% della popolazione, a Haiti, per esempio, nessuno è stato ancora vaccinato.

«ABBIAMO PREVISIONI per l’economia dei paesi del G20 di un solido rimbalzo economico – ha detto Le Maire – ma c’è il rischio di avere una nuova pandemia, dobbiamo accelerare la vaccinazione» (lunedì sera Emmanuel Macron farà un intervento tv, forse ci sarà la vaccinazione obbligatoria per il personale sanitario). “Le previsioni economiche sono molto buone – ha insistito Le Maire – sarebbe un peccato che saltassero per la mancanza di vaccinazione», questo vale per i paesi ricchi, mentre per i poveri possono «saltare» per la mancanza di vaccini, la soppressione dei diritti di proprietà intellettuale non è passata finora alla Wto. Janet Yellen ha parlato di «giornata produttiva, abbiamo fatto progressi nell’affrontare le sfide globali, come la crisi climatica e come mettere fine alla pandemia».
Ma il meccanismo Covax (dosi per i paesi poveri, metà del programma finanziato dalla Ue) ha delle falle, il Venezuela per esempio ha protestato e si è rivolto a Cuba. Al G20 ci sono dei paesi latinoamericani che vaccinano poco, come il Brasile.

SUL CLIMA, LE TENSIONI sono forti. Il 14 luglio, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, deve presentare un piano Ue, ma è già polemica all’interno del blocco e all’esterno – con Usa, Cina, Australia, Russia, Turchia, Qatar, Arabia Saudita – sull’ipotesi di una carbon tax alle frontiere esterne.

L’idea è francese, sostenuta da Austria, Repubblica ceca, Danimarca, Lituania, Lussemburgo, Olanda, Slovacchia e Spagna: far pagare dei dazi ai prodotti importati da paesi che non rispettano le spesse regole climatiche della Ue. Ci sono dei dubbi della Germania, primo paese esportatore. Per il cinese Xi, il clima non deve diventare «una scusa per mettere barriere al commercio». Per l’Australia c’è il «rischio di scatenare il protezionismo».

GLI USA SONO CONTRO, anche se il vice-presidente della Commissione Frans Timmermans ha cercato giorni fa di rassicurare Washington: i prodotti Usa non sarebbero tassati perché c’è l’impegno di neutralità carbone nel 2050. Ma la tassa colpirebbe ferro, acciaio, cemento, energia, alluminio, fertilizzanti, che interessano l’export Usa. I più colpiti da una carbon tax Ue sarebbero Russia, Ucraina, Turchia, Cina, ma anche Norvegia e Svizzera. In vista, grossa battaglia alla Wto.