Uno degli aspetti più affascinanti che da sempre impegna e coagula gli sforzi – e forse anche la fantasia – della critica dantesca riguarda senz’altro il percorso di formazione intellettuale di Dante. Alcuni studiosi hanno puntato direttamente agli scaffali della sua biblioteca o a quelli delle biblioteche cui il poeta poté avere accesso – emblematico, quanto discusso, il Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna del generoso e compianto Luciano Gargan –, non di rado guidati della fata morgana della postilla o della manicula autografa (tempo fa Marco Palma annunciò la scoperta di un De consolatione di Boezio con sottoscrizione dantesca, facezia che trovò qualche accoglimento); altri invece hanno scelto la via, più faticosa ma forse anche più remunerativa, dello studio lento e paziente delle sue opere, passandola al vaglio della letteratura, cioè delle fonti, che Dante poté avere letto e assimilato durante quel percorso di formazione. A questa seconda schiera appartiene – anzi di essa è pioniere – Zygmunt Guido Baranski.
Nello studio di Dante Baranski si è sempre mosso con la trifaria attrezzatura del latino, dell’italiano (italiana era la madre) e dell’inglese: imprescindibili i primi due per la ricerca, fondamentale il terzo per la divulgazione. Una selezione di suoi contributi, editi tra 1991 e 2017 e debitamente rivisti e aggiornati, ha appena visto la luce nel corposo volume Dante, Petrarch, Boccaccio Literature, Doctrine, Reality (Legenda, Cambridge, pp. 658, € 85,00). Baranski parte – è questa mi pare l’idea di fondo del volume – dalla constatazione che il mondo medievale si muova sempre attraverso una complessità di percorsi variegati e multiformi e che per comprendere tale complessità occorra un accesso diretto alle fonti. Lo spessore e il passo con cui si entra nell’agone emergono bene nel saggio ‘Tres enim sunt manerie dicendi…’: Some Observations on Medieval Literature, ‘Genre’, and Dante, che analizza il significato dei termini genus, stilus, qualitas nella trattatistica medievale e l’uso che ne fece Dante nelle sue opere. Baranski si cimenta direttamente con un anonimo commentario all’Ars poetica di Orazio e poi sposta la sua attenzione su altri commentari, sui lessici, sulle poetrie medievali. Ne emerge un profilo variamente sfrangiato che revoca in dubbio la perentoria tendenza tassonomica abitualmente attribuita come etichetta al Medioevo. È, questa, una forzatura che Baranski attribuisce alla critica moderna, desiderosa del dato positivo, laddove il Medioevo procedeva per campionamenti dalle opere degli auctores, lasciando ampi margini descrittivi ai generi letterari, aperti a mille variazioni che saranno poi debitamente sfruttati da Dante sia in sede teorica sia in sede pratica. È una lezione importante – direi di impronta filologica – per imparare ad accostarsi alla letteratura medievale: un itinerario teso a comprenderne a fondo paradigmi, ragioni, pratiche scrittorie in senso pieno.
In questo percorso a ritroso alla ricerca delle fonti dantesche un tratto caratteristico del modus operandi di Baranski è quello di muovere in linea di massima da quanto, più che tutto, Dante poteva avere presente, lui come qualsiasi persona colta del tempo, ossia la letteratura sacra e dunque la Bibbia. È facile rintracciare in molti contributi – specie quelli danteschi – la filigrana della Sacra Scrittura che porge spesso, prima e meglio di altre lettre tanto peregrine quanto improbabili, le chiavi d’accesso al pensiero dantesco e illustra le dinamiche che da quelle premesse hanno condotto alla rielaborazione poetica.
Sui precedenti e sulle fonti medievali che Dante poté o meno avere consultato, più di vent’anni fa Jorge Luis Borges – è il quinto dei celebri Nove saggi danteschi –recuperava una leggenda narrata dal Venerabile Beda nella Historia ecclesiastica gentis Anglorum: Beda riferiva la visione di un tale Drycthelm, morto al crepuscolo dopo lunga malattia e miracolosamente risuscitato all’alba, non prima di avere compiuto un breve viaggio nel regno dei morti. Lasciando stare il possibile accesso a simili precedenti – «Ha mai letto Dante la Historia ecclesiastica?» si chiedeva Borges – merita segnalare l’abitudine di Beda a intersecare la narrazione storica con variationes aneddotiche che certo dovevano contribuire a vivacizzarne il dettato forse un po’ monotono. E infatti pare che l’eruditissimo monaco ricorresse a simili espedienti anche altrove, per esempio nel sermone per la festa dei santi Pietro e Paolo: «ma perché a questo punto non ci prenda la noia – così Beda – lasciamo stare Paolo e Pietro e parliamo d’altro…», dando avvio a una drammatica messinscena in cui ai due santi martiri si contrapponevano sul palcoscenico Simon Mago e il carnefice Nerone.
È, questo, uno dei tanti precedenti richiamati a proposito dei simoniaci della terza bolgia, conficcati nella pietra a testa in giù. Ed è, questa, una delle molte tessere con cui la «miniera formidabile di racconti» della Commedia nutre il proprio mosaico affabulatore, quell’affabulazione così mirabilmente evocata dal Boccaccio nel suo Trattatello, ritraendo la stupita ammirazione delle donnette di Verona («Donne, vedete colui che va ne l’inferno e torna quando gli piace, e qua su reca novelle di coloro che là giù sono?»). L’accostamento emerge dal nuovo volume che Lino Pertile ha dedicato al rapporto tra la Commedia e la cultura di matrice popolare (Dante popolare, Longo Editore Ravenna, pp. 388, € 34,00). Pertile riprende e rielabora a fondo contributi già editi muovendosi lungo due direttive principali: la ricerca, nel poema, di precedenti radicati o quanto meno vicini a una «cultura collettiva»; la ricezione o la strumentalizzazione dei tratti del poema a quella cultura più facilmente riconducibili. Al primo punto s’è già fatto cenno e si potrà ancora leggere con profitto – previi aggiornamenti bibliografici – il glorioso volume di Alessandro D’Ancona dedicato a I precursori di Dante. Più delicato appare il secondo punto per il quale Pertile, richiamandosi a studi recenti, recupera la presenza dantesca nella letteratura omiletica quale straordinario serbatoio «di storie, idee ed exempla»: proprio gli «echi di un’esperienza più di cose che di libri e di una cultura più di piazza che di scuola» avrebbero assicurato al poema il suo «straordinario successo popolare». Questo «livello basilare di contenuti narrativi» poté aprire la Commedia «a uno strato sociale più basso di artigiani, bottegai, commercianti e lavoratori capaci di leggere» che a Firenze, almeno stando alle testimonianze di alcuni cronisti, erano più numerosi che altrove. È un tema affascinante che Pertile affronta da par suo seguendone lo sviluppo sino alla strumentalizzazione d’epoca fascista – e qui occorrerebbe un intervento a parte – e anche oltre.
Inevitabile, allora, la rotta di collisione con Carlo Dionisotti che, intervenendo nel 1965 al Congresso internazionale di studi danteschi, prendeva le distanze, dopo un caldo elogio, dal saggio capitale di Vittorio Rossi su Dante nel Trecento e nel Quattrocento: «Dante non fu certo, mai, neppure a Firenze, il poeta dei bottegai, come alcuni umanisti fiorentini ai primi del Quattrocento andavano dicendo nel loro furore polemico, con grande scandalo dei benpensanti. Se fosse stato il poeta dei bottegai quel giudizio dispettoso, per l’appunto inteso a fare scandalo, non avrebbe avuto ragion d’essere. A torto o a ragione, in ogni età l’avanguardia letteraria non si preoccupa affatto di quel che leggano o non leggano le inferiori classi sociali, bensì mira a guadagnare o debellare i potenti». Poi, con irrinunciabile richiamo al medievale distingue frequenter: «una stratificazione sociale dell’Italia quattrocentesca in tanto può essere fatta in quanto sia localmente, cioè nazionalmente definita, Firenze e Siena ad. es. contando come nazioni diverse, e in quanto anche sia cronologicamente differenziata». Ciò che valeva per Firenze dunque non valeva altrove: «fuori di Firenze – ancora Dionisotti – l’ipotesi di un culto popolare o comunque a basso livello dell’opera di Dante durante la prima metà del Quattrocento, non è neppure discutibile».
Da questo punto di vista il reimpiego della Commedia nei sermoni dei predicatori quattrocenteschi – rilevato di recente da Pietro Del Corno – imporrà di riprendere in mano la questione. Per il resto – e su questo non mi trovo del tutto d’accordo con Pertile – mi pare che il quadro di Dionisotti («fuori le carte e fuori i documenti» avrebbe detto Billanovich) tenga ancora bene e che i lavori di Davis e Black evocati contra in nota, per il momento non lo modifichino.