Qualsiasi viaggiatore perduto tra le fenditure dei monti e i larghi orizzonti del mare della Grecia, in navigazione verso i numerosi arcipelaghi che costellano quel territorio per metà sommerso dalle acque, capisce a un colpo d’occhio che l’isola di Creta ha una identità tutta sua. Ha un sapore di erbe speziate e formaggi freschi come lo ximomizithra, e un colore eccentrico che sorprende per le mutazioni repentine.

D’altronde, è sufficiente ammirare anche solo la ricostruzione – quella «scenografia sfacciata», come la stigmatizzò lo storico dell’arte Cesare Brandi – del fastoso palazzo di Minosse a Cnosso, per intuirlo. Ovunque, riverbera una tavolozza che scarta dal resto della Grecia continentale e isolana. Soprattutto nel versante occidentale, quello che custodisce nel suo cuore i resti di una città stato come Aptera (forse un insediamento coloniale governato dal dorico Apteros, che partecipò all’occupazione di Creta verso la fine dell’era minoica), domina il rosso dardeggiante delle catene montuose e dei sassi incastrati fra bassi cespugli di timo, rosmarino e dittamo. Quest’ultimo è una erbacea perenne aromatica, sacra a Artemide, che si favoleggia mangiassero anche le capre, fin dalla notte dei tempi, per far rimarginare le ferite procurate da frecce e che, in seguito, venne elevata a pianta per visionari e vaticinanti. C’è poi il grigio perlaceo dei valichi impervi tra le rocce, interrotto dall’improvviso candore di chiesette rupestri abbarbicate ai pendii, e quel particolare cielo «sbucciato», come lo definì sempre Brandi nel suo Viaggio nella Grecia antica, mentre alle insenature bagnate dal mare che costeggiavano il tragitto tra Chania e Iraklion attribuì un azzurro «vinoso».

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Chania

La tavolozza comprende anche il bianco panna delle nuvole che nasconde eternamente la cima del monte Ida: è proprio lassù che nacque la civiltà greca, quando Rea, in un anfratto (oggi mèta di pellegrinaggio), rifugiò il piccolo Zeus per sottrarlo al cannibalismo del padre Crono, dando a quel marito esigente in pasto una indigesta pietra. Sfuggì il dio-bambino alla sorte crudele degli altri figli di Rea, venne allevato con miele e ambrosia dalla capra Amaltea e, una volta cresciuto, conquistò il potere: detronizzò il genitore-tiranno e lo costrinse a vomitare i suoi fratelli, fondando così un intero mondo celeste e, successivamente, anche una progenie di uomini e donne che finì sulla terra.

Assai rigogliosa ai primordi, ora Creta appare più brulla, con vegetazione rasoterra, costellata però sulle spiagge da piccole palme, una specie autoctona, oggi protetta, la phoenix theofrasti. Siamo comunque nella terra che fin dal tremila avanti Cristo coltivava gli ulivi. Ce ne sono, sull’isola, circa quattro milioni e mezzo: tutti, dopo cinque anni, danno i loro frutti, le olive per il celebre olio extravergine e quelle da pasto, più grandi, le kalamata. Alcuni alberi sono battuti dal vento da almeno un millennio, come l’olivo di Vuves, un villaggio a 30 chilometri dalla città di Chania, considerato uno dei più antichi del pianeta tanto da meritare un museo tutto dedicato alla sua storia e a quella dei suoi «vicini». Può anche capitare che, vagando con lo sguardo, si scorgano piantagioni di banani e altre di avocado: nel paesino di Lapa, dove si conservano ancora molte vestigia intatte del modus vivendi veneziano, case soprattutto, l’avocado è un gran protagonista: si beve, si mangia e si spalma come unguento rigenerante sulla pelle.

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L’anomalia paesaggistica cretese rispetto all’idea che ognuno possiede della Grecia «turistica» è tutta in alcuni numeri: il suo territorio, oltre naturalmente alle spiagge, presenta circa 500 gole di montagna – molte delle quali ospitano gli 800 monasteri dell’isola – 1000 cascate, il canyon più lungo d’Europa (18 chilometri, le gole di Samaria), 60 cime che superano i duemila metri. Numeri che descrivono una cartografia apparecchiata per smarrimenti volontari.
È labirintica Creta, proprio come indica la sua mitologia, con quella simbolica prigione per il Minotauro (figlio di Pasifae, moglie di Minosse ma nato da un tradimento insufflato dagli dèi) che l’architetto Dedalo costruì a protezione del «mostro» regale. Stratificata, abitata fin dal neolitico, poi «raccontata» in un palinsesto vertiginoso di dominazioni che la storia ha sovrapposto – da qui la civiltà minoica si è propagata, qui sono arrivati micenei, dori, romani, bizantini, veneziani, turchi – l’isola bagnata dal mar Egeo e da quello libico non può rispondere a nessuna esigenza di controllo.

«Avevo quella sensazione di certe pagine dei romanzi di Dickens, di un mondo strano, con una gamba sola, rischiarato da una luna sfinita: una terra sopravvissuta a ogni catastrofe e ora palpitante di un battito sanguigno, una terra di gufi e aironi e di bizzarre reliquie, quali i marinai riportavano da lidi stranieri». La ricordava così nel suo Il Colosso di Marussi lo scrittore americano Henry Miller che, nel 1941, si imbarcò da Marsiglia per il Pireo, procedendo tappa dopo tappa fino a Creta, restituendo al lettore un luogo remoto, che a un viaggiatore d’oltreoceano doveva apparire di difficile decifrazione. Le spiegazioni raziocinanti, qualsiasi tentativo di incasellamento di una realtà multiforme, vennero prontamente sostituite da un torrente di impressioni fisiche. All’inizio, col solo pronunciare una prima parola «bellissima come nero, acqua», poi tratteggiando un ritratto compiuto: «La Grecia è ciò che ognuno sa, anche in absentia, anche da bambino, o da idiota o nascituro. Ma Creta è un’altra cosa – scriveva ancora Miller – è una culla, uno strumento, una vibrante provetta in cui è stato eseguito un esperimento vulcanico». In più, ogni luogo possiede una sua forte personalità: Chania, per esempio, è veneziana, eclettica e individualista. Per un altro viaggiatore eletto come Brandi, che affidò le sue sensazioni al libriccino pubblicato da Vallecchi nel 1954, Chania ha «un porto che sembra un templio smantellato. Nel senso che ha le sue belle strutture naturali, calve naturalmente, e una mostra insipida di città qualunque che una volta dovette essere cospicua. Sorte amara, non di una città sola, di un’isola che, dopo essere stata la depositaria di una civiltà primeva, misteriosa, e raffinatissima, in anticipo su quasi tutti i rivieraschi del Mediterraneo; dopo aver vivacchiato onorevolmente fino alla fortuna, insperata, di divenire veneziana, proprio all’ultimo quando sembrava che ce l’avesse fatta a scampare dai turchi, i turchi se la pigliano, e in meno di due secoli ne distruggono ventisette».

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Monastero di Tzagarolon

Veneziano è proprio uno dei monasteri più belli – Tzagarolon – dal cognome dei due fratelli Lorenzo e Geremia che lo fecero costruire. Si trova nella penisola di Akrotiri, lì dove, andando verso il mare s’incontra anche la spiaggia di Stavros, divenuta un’ambitissima location dell’immaginario dopo che, nel film Zorba il greco, Anthony Quinn vi ballò per la prima volta il sirtaki, battezzando con il suo corpo una danza popolare, sulle note di Mikis Theodorakis. Era il 1964 e il sirtaki vedeva la luce ispirandosi all’hasapiko, un’antica danza chiamata anche «dei macellai», risalente all’impero bizantino. Nato per testimoniare la libertà e l’energia vitale, è stato la bandiera della rivolta della popolazione greca alle leggi finanziarie delle troika.

Eppure Creta è nutrice e matrice europea, un luogo delle origini, come viene ribadito più volte dalle sue leggende. È da qui che il Vecchio continente ha preso in prestito il suo nome, nonostante la posizione geograficamente così marginale dell’isola stessa. Fu la principessa fenicia Europa, infatti, a generare Minosse con Zeus, spostandosi da oriente verso occidente e gettando le fondamenta di una nuova civiltà, che all’epoca mitologica non temeva di mescolare est e ovest: bella e sofisticata, veniva dalla città di Tiro, fu abbindolata dal dio sotto le spoglie di un toro all’apparenza mansueto e trasportata attraverso il mare a Creta, dove si unì a Zeus dando alla luce tre figli.

 

SCHEDA, LA NECROPOLI DI ARMENI

Molti bambini, uomini e donne relativamente «giovani», dai 20 ai 31 anni, gran parte dei quali morti per una dieta sbagliata: una discreta quantità di carne e niente pesce. Per le donne, a spezzare la speranza di una lunga vita era non di rado il parto stesso. Lo studio delle ossa di quegli scheletri ha rilevato anche che la dentatura si guastava per prima e così la loro salute deteriorava in fretta. Colpisce cogliere questa notizia sugli «abitanti» del mondo di sotto della necropoli di Armeni, perché ancora oggi in Grecia, anche nelle sue isole, la specie ittica non va per la maggiore sulle tavole imbandite dei ristoranti. Consuetudini antiche che non passano, soprattutto se poco oltre le tante tombe tardo-minoiche ritrovate negli scavi condotti fin dal 1969 da Yiannis Tzedakis (sono fino ad ora 231 e 500 scheletri) fra le montagne si può assaporare il formaggio fresco di capra mista a pecora, segno che lì la pastorizia ha prosperato nei secoli e mantiene la sua posizione dominante con orgoglio.

TOMBA
Nella impressionante necropoli di Armeni, che si trova a soli nove chilometri, a sud della città di Rethymno, le sepolture sono tutte orientate verso la montagna Vryssinas, un tempo sede di un santuario; oltretutto è posta a est, luogo dove sorge il sole e dove, simbolicamente, quei corpi deposti in posizione fetale (per questo motivo i larnakes, ciste funerarie che ora si trovano al museo di Chania, sembrano tanto piccole al confronto di altri sarcofagi), avrebbero potuto rinascere senza difficoltà. Le tombe – solo una a tholos, le altre a camera, con un lungo corridoio in quelle più ricche e alcuni scalini che conducevano agli inferi – erano ricavate in una roccia conosciuta come kouskouras, piuttosto malleabile. Ogni entrata era sbarrata da una grossa pietra: alcune sono state rimesse in loco per dare un’idea della costruzione originaria. Due i terrapieni sui quali sorge quel grande cimitero che gli archeologi collocano tra il 1400 e il 1200 a.C: in alto, c’erano le sepolture più grandi e ariose, quelle che appartenevano alle classi sociali abbienti; sotto, appaiono più piccole. tutte, però, avevano le pareti ricoperte di blu, simbolo del cielo, dell’aria e del possibile «volo» verso l’altrove.
È una vera e propria cittadella quella in cui si entra, con tanto di sentieri segnalati, abbastanza larghi probabilmente per il passaggio dei carri che trasportavano le larnakes. Fra gli oggetti sopravvissuti al tempo, oltre a utensili, vasi e gioielli, i resti di una «barella» in legno usata per trasportare il defunto, mentre fra le «cose» di famiglia è spuntato uno strano elmetto composto da 59 zanne di cinghiale.