A dicembre del 2014 «commenteremo le riforme istituzionali compiute». Per l’ennesima volta in pochi mesi Enrico Letta dichiara la sua fede incrollabile sulla fattibilità delle riforme, incurante di averlo già fatto ad aprile al momento della nascita del governo, e poi ancora durante l’estate fino all’autunno, ricevendo ogni volta smentite sonore quanto eloquenti.
Stavolta il programma è ridimensionato, ma non per questo più abbordabile per la sua maggioranza, che Berlusconi o no, continua ad essere «strana».

Alla conferenza di fine anno il premier dà per certa la fine del bicameralismo perfetto per morituro il senato, per come lo abbiamo conosciuto negli scorsi settant’anni di Repubblica («L’anno prossimo potremo dire all’Europa di essere finalmente riusciti a risolvere uno dei problemi che rende più complicata l’attività decisionale, il bicameralismo paritario»), la riforma del titolo quinto della Costituzione e l’eliminazione della parola province.

Tutti compiti epocali, ciascuno a proprio modo, che un parlamento eletto con una legge oggi dichiarata incostituzionale dalla Consulta dovrà svolgere «con un’apertura vera fuori dalla maggioranza». Quindi «Berlusconi e Forza Italia devono stare dentro il percorso, con Renzi la pensiamo allo stesso modo». In ossequio all’idea del percorso condiviso, e visto che – fortunatamente – la modifica dell’articolo 138 è sfumata per l’indisponibilità dei forzisti di votare l’ultimo passaggio alla camera, per il premier in ogni caso tutto il pacchetto – provvedimento per provvedimento, si spera – dovrà essere sottoposto a referendum: «Alla quarta votazione dovremmo far mancare il voto per arrivare ai due terzi per far fare comunque il referendum costituzionale. Una grande riforma ha bisogno del voto dei cittadini» e questo sarà, ha concluso, «il suggello della fine della transizione».

Ottimo proposito, benché tardivamente maturato: nella scorsa legislatura, al varo del pareggio in bilancio in Costituzione, inutilmente radicali socialisti e vendoliani (insieme ad associazioni e costituzionalisti) cercarono di convincere i parlamentari del Pd a far mancare la stragrande maggioranza, per poter poi chiedere il voto dei cittadini.

Quanto alla legge elettorale, Letta ha fretta, ma solo nei proclami, visto che una volta approvata a qualcuno nel Pd potrebbe venir voglia di votare anzitempo. E quindi il premier auspica che il parlamento la approvi «prima delle elezioni europee», che sarà anche «il prima possibile», ma non è un termine proprio dietro l’angolo. Ed è una data utile a metterebbe l’esecutivo definitivamente al riparo dalle elezioni politiche entro la primavera del 2014. A luglio invece partirà il semestre di presidenza italiana della Ue, che rende sconsigliabile un cambio di guardia a Palazzo Chigi.

Letta non teme il dialogo fra Renzi e Forza Italia, che pure mette in fibrillazione la maggioranza: e anche qui il segretario del Pd «fa bene a parlare con Forza italia». A occhio, sarà un braccio di ferro lungo quanto tutto il 2014. Ieri dal Nuovo centrodestra Nunzia De Girolamo. avvertiva che «il continuo fuoco amico» del nuovo leader dem «fa perdere credibilità a tutto il centrodestra». La replica del «Mattinale», la nota politica di Forza Italia: «Schifanellum. La proposta di legge elettorale del Ncd e del metodo per arrivarci ha per padrino, absit iniuria verbis, l’ex presidente del Senato. Il quale vuol lasciare fuori dalle trattative Berlusconi. Complimenti. È la linea Alfano? Speriamo di no».