Un’organizzazione non governativa olandese ha costruito un avatar: la rappresentazione grafica molto verosimile di una bambina filippina di dieci anni, di nome Sweetie, protagonista di un filmato che entra nelle chat frequentate da pedofili e li adesca, consentendo di individuarli. Migliaia di uomini da tutto il mondo le hanno chiesto di compiere atti sessuali davanti alla webcam, scambiandola per vera. Dieci giorni fa un australiano di 38 anni è stato condannato dal tribunale di Brisbane a due anni di reclusione per aver chiesto a Sweetie, tra altre cose, di vederlo nudo. Per il giudice era colpevole di maltrattamento sessuale di minore. Il fatto che la vittima fosse un essere virtuale non era importante: ciò che contava era il fatto che l’accusato pensasse che fosse reale.

Questo processo alle intenzioni (concrete) sfociato in una condanna, è stato istruito secondo la logica dei cacciatori di pedofili olandesi che è, presumibilmente, debitrice di uno stratagemma ricorrente nei film sui serial killer: una persona (solitamente una donna) viene usata come esca per attirare in una trappola l’assassino. I fini giustificano i mezzi si dice. È difficile contestare questa visuale quando il fine -la protezione dei bambini- è così importante ma è chiaro che in questo modo si finisce per combattere la perversione in se stessa invece che il maltrattamento dei bambini che ne può conseguire.

Un inquadramento rigoroso della pedofilia, e di conseguenza una politica di prevenzione adeguata, è di là da venire a causa della sovrapposizione tra ragioni giuridiche e costellazioni psichiche e tra valori etici e valori morali.

Tuttavia due fattori si impongono con la costanza della loro presenza. Il primo è la psicogenesi immancabile della perversione pedofila da un’estrema violazione dei confini (non intenzionale né consapevole) che un genitore (tipicamente una madre restata senza sponda nell’uomo) opera ai danni di un figlio nell’ambito della loro relazione di desiderio.

Il secondo è l’assoluta impossibilità del pedofilo di accedere a un piacere profondo: resta ancorato all’eccitazione (e alla sua scarica) che deriva dal potere senza limiti (non necessariamente percepito da parte sua come violento) che ha su un oggetto di desiderio ridotto a giocattolo privo di volontà (la cui inermità è ulteriore motivo di giubilo perché gli dice soprattutto che quest’oggetto non è lui).

Adescare e snidare i pedofili come prede feroci può appagare il sentimento di odio nei loro confronti ma come politica di prevenzione questa caccia senza scrupoli è controproducente. Ingannare il pedofilo costringendolo a uscire allo scoperto, ripropone in lui il trauma psichico che sta alla base della sua perversione: lo fa sentire manipolato e alla mercé del suo inseguitore. Questo incentiva dentro di lui la tentazione di rifarsi, capovolgendo il rapporto tra carnefice e vittima, sulla pelle del primo bambino a disposizione. La perversione è spinta a diventare abuso effettivo, il che non è un suo esito automatico, scontato. Più che la paura di chi sente il fiato del predatore sul collo, è il senso di responsabilità che preserva il perverso dal danneggiare il suo oggetto. La giusta punizione può contribuire al senso di responsabilità (che spesso sopravvive: non tutti tra coloro che erotizzano l’infanzia sono stupratori) ma non se la legge è, a sua volta, scorretta, prevaricatrice.

L’identificazione con il pedofilo, al fine di stanarlo, contamina il suo censore, specie in un’epoca in cui l’eccitazione a sé stante e la manipolazione dell’oggetto di desiderio sono una tendenza diffusa se non dominante.