Il ministro Speranza ha emanato le nuove linee guida per l’utilizzare la Ru 486 in regime domiciliare. Bene, ma in parte era ovvio – per non dire scontato, perché non era neanche giuridicamente sostenibile né praticabile una obbligatorietà al ricovero – che anche il nostro Paese si allineasse con le migliori e più recenti evidenze scientifiche.

Né ci devono spaventare le scomposte proteste dei movimenti pro-life che da anni ripetono i soliti slogan stantii. Il ministro Speranza ha inoltre dichiarato che «è un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese».

Ma forse è il momento di chiedersi se in verità sia la legge 194 stessa ancora uno strumento adatto a gestire tutta la questione interruzione di gravidanza nel pieno rispetto della autonomia decisionale della donna.

La questione aborto farmacologico – per ovvi motivi cronologici – sarebbe già sufficiente a mostrarne da sola tutta la sua vetusta inadeguatezza e la necessità di una nuova stesura.

Tralasciamo, in questa sede, tutta la questione – certamente non meno importante – degli obiettori di coscienza. Oggi a distanza di più di quaranta anni non è più giustificabile riconoscere tale eccezione. Chi è obiettore – nel pieno rispetto delle sue legittime convinzioni – non dovrebbe lavorare nell’ospedale pubblico o comunque dovrebbe farlo a determinate condizioni. Se analizziamo anche solo un paio di passaggi della legge – un aspetto formale semantico ed uno di contenuti – ci accorgiamo che la stessa è intrisa di un forte paternalismo ippocratico confessionale. All’art 1 si parla di «diritto alla procreazione».

Il termine «procreazione» è di origine confessionale, sottintende che la riproduzione sia un evento quasi miracolistico che prevede la creazione dal nulla di una nuova entità. Si vuole da subito affermare che la riproduzione sia un evento che conserva una natura trascendentale, quasi insondabile, che sfugge pertanto al pieno controllo umano. Nulla da obiettare per chi ci crede, ma inserirlo in un dettato legislativo mi sembra quantomeno inopportuno.

All’articolo 5 invece si stabilisce che la donna potrà interrompere la gravidanza – qualora non vi sia carattere di urgenza – solo dopo un colloquio con il medico.
«Questi alla fine del colloquio invita (la donna, ndr) a soprassedere per 7 giorni».

È evidente la finalità paternalistica.

Solo il colloquio con il medico permetterà alla donna di prendere una decisione adeguata e consapevole, ma non prima di una lunga – ma soprattutto obbligatoria – pausa di riflessione. È noto che molti ginecologi retrodatano questo certificato per velocizzare il già difficile e penoso iter della donna.

Ma il convincimento del legislatore era chiaro: la donna non è in grado di decidere in autonomia sul proprio corpo. Peraltro questo passaggio temporale sembra in evidente contrasto con la scelta dell’aborto farmacologico.

Non credo che il rischio nel riscrivere una legge sia quello che il risultato possa essere paradossalmente un testo più restrittivo della libertà decisionale della donna, come taluni paventano. E comunque per quello ci potrebbe sempre essere un nuovo referendum.

O vogliamo continuare ad illuderci che un vecchio telefono a gettoni – pur essendo stato molto utile nel passato – con qualche piccola modifica possa collegarci ad internet?

* medico, Consulta di Bioetica

marioriccio1@inwind.it