Se 1984 è il manuale di self help a cui sono ricorsi migliaia di americani traumatizzati dal risultato elettorale dell’autunno scorso, lo scrittore che aveva previsto con più verosimiglianza l’era di Trump, rimane Philip Roth che, in The Plot Against America, immaginando che, nel 1940, Charles Lindbergh avrebbe sottratto la casa bianca a Franklin Roosevelt, ci aveva dato il quadro agghiacciante di un’America governata da un miliardario populista/ignorante/xenofobo e razzista.

È dell’altro giorno la notizia che anche William Gibson sta lavorando a un romanzo, Agency, incentrato su una realtà alternativa, quella di una presidenza Hillary Clinton. E c’è da essere sicuri che la distopia trumpista darà ispirazione a letteratura, teatro e cinema nell’immediato futuro.

Per ora, il suo effetto è già visibile in molte serie tv che, in alcuni casi, hanno cambiato corso «in progress». Difficile per esempio non pensare che l’iter dell’ultima stagione di Homeland non sia stato influenzato dal ribaltone elettorale. Partita con la vittoria di un presidente donna, Elizabeth Keane, favorevole all’accordo con l’Iran e molto diffidente nei confronti dei servizi segreti, season 6 si è evoluta in un complotto dopo l’altro per finire con Keane paranoicamente assediata dentro alla Casa Bianca, in procinto di istituire la legge marziale, dopo aver purgato il suo governo di nemici immaginari e aver messo in prigione Saul Berenson.

Donald Trump è quasi un personaggio nel bel procedural The Good Fight, lo spinoff del serial a sfondo legale The Good Wife realizzato in esclusiva per il servizio streaming della CBS. Il primo episodio apre infatti sul volto di Diane Lockhart nell’istante in cui viene annunciata la vittoria di Trump. «Cut», e la celebre avvocatessa di Chicago, dopo aver dato le dimissioni dal prestigioso studio in cui lavora, sta cercando una villa in Francia, dove ritirarsi a vita privata. Ma le sue finanze rimangono congelate con l’arresto di un finanziare alla Madoff e Diane, trovatasi senza lavoro e senza soldi, cerca impiego in uno studio legale afroamericano specializzato, tra le altre cose, in cause contro gli abusi della polizia. Abituata a gestire grandi casi di crimine white collar, da Reddick Boseman & Kolstad, Diane si trova improvvisamente dall’altra parte della barricata, a difendere lavoratori sfruttati e a contrastare un procuratore che, su pressioni della nuova Casa Bianca, vuole ridurre drasticamente le denunce contro il Chicago Police Department.

Preoccupato di finire nel mirino del governo viste le cause anti Trump su cui sono impegnati, e di perdere clienti che temono le ire del nuovo presidente nei confronti della firm liberal, il titolare dello studio, Adrian Boseman, assume un avvocato che ha votato per Trump. Ma la cosa non dura, perché, nell’ufficio, quell’unico trumpista si sente troppo solo ed emarginato, così trova lavoro in uno studio afroamericano rivale, ma di marca repubblicana. In una recente intervista di gruppo, organizzata dal «New York Times», gli sceneggiatori di alcune delle maggiori serie a sfondo politico (House of Cards, Veep, Madame Secretary e Scandal) hanno ammesso di dover tener conto nei loro copioni del nuovo inquilino della Casa Bianca. Shonda Rhimes, che aveva già previsto un plot russo per l’ultima stagione di Scandal, e introdotto nella serie lo spregiudicato tycoon populista Hollis Doyle, ha dovuto riscrivere un intero episodio dopo le elezioni.

Frank Pugliese, uno degli autori di House of Cards ha detto che, già prima dei risultati elettorali, la curva narrativa della loro terza stagione prevedeva accenni e forze tiranniche e un’onda populista.

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