Torna in libreria, a un decennio dalla sua prima uscita, Democrazia in America? Il sistema politico e sociale degli Stati Uniti di Oliviero Bergamini, nella bella collana Americane di Roberto Cagliero, Erminio Corti e Stefano Rosso (ombre corte, pp. 262, euro 20). Ci torna con una nuova, robusta introduzione che, in una trentina di pagine, integra e aggiorna opportunamente il testo; un testo rimasto, nella sostanza, lo stesso dell’edizione del 2004, uscita prima del secondo mandato di George W. Bush e di quello di Barack Obama come presidenti.
Ha fatto bene Bergamini a lasciarlo così: un po’ perché l’impianto di fondo, con l’intenzione ribadita di «comprendere» la democrazia d’oltre Atlantico «nelle sue luci e ombre», sulle orme dichiarate di Tocqueville, funziona ancora pienamente; un po’ perché esso testimonia di una fase della riflessione su quella realtà che è venuto il momento di superare, inerpicandosi su sentieri che magari lascino da parte il più che legittimo e comunque sempre illuminante riferimento al pensatore normanno, per procedere con l’aiuto di altre guide più adatte ai nostri tempi di così profonda ridefinizione della faccia del capitalismo. Tipo un vecchio-giovane Marx a Detroit o magari, meglio, ancora un Marx o un CLR James nella Silicon Valley o nel Sud di Wal-Mart.

Ma prima di procedere, occorre ricordare, come dicono la quarta di copertina e Wikipedia, che Bergamini, oggi caporedattore della redazione esteri del Tg1, ma già docente all’Università di Bergamo dove tuttora insegna Storia del giornalismo, è uno che gli Stati Uniti li conosce molto bene per averci studiato, fatto ricerca e vissuto con risultati scientifici e culturali inoppugnabili. Gli dobbiamo, fra l’altro, un pregevole, ampio lavoro di scavo nella storia dell’esercito statunitense a cavallo fra Otto e Novecento (Un esercito per la nazione: Elihu Root e la nascita del moderno sistema militare degli Stati Uniti, Marcos y Marcos, Milano 1995) e una svelta, fortunata sintesi sulla Storia degli Stati Uniti (Laterza, 2010), oltre a numerosi contributi di storia della stampa usciti sempre da Laterza, fra cui La democrazia della stampa. Storia del giornalismo (Roma-Bari, 2013).

Perché il punto interrogativo apposto alla famosa formula del nobile francese in giro per il Nord America nei travagliati primi anni trenta dell’Ottocento? Perché, esplorata passando al setaccio «alcuni aspetti» dell’insieme «di istituzioni, pratiche, rapporti sociali, politici ed economici» che la connotano, la «democrazia americana» rivela un denso tessuto di contraddizioni, che, scrive Bergamini, convivono con «elementi di vitalità e di innovazione che pur all’interno di alcune condizioni strutturali, le assicurano spazi di movimento ed evoluzione». Eccoci così introdotti a un viaggio tematico che in otto, compatti capitoli ci fa trascorrere dal sistema elettorale, alle forme della politica, al potere economico, alle condizioni sociali, alla situazione delle minoranze, al viluppo media-informazione-ideologia, ai diritti individuali, a una generale panoramica sullo stato di salute complessivo della democrazia d’oltreoceano.

Ogni capitolo è introdotto e concluso con un riferimento a Tocqueville, che compare pure negli exergo d’apertura, a suggellare, con annotazioni sempre appropriate, il ragionamento condotto nel capitolo stesso. Le dolenti note sulla «democrazia americana» cominciano dal sistema e dalle pratiche elettorali che, dice Bergamini, anche se non hanno visto ripetersi «l’effetto ‘perverso’ (reso possibile dal metodo maggioritario) dell’elezione di un presidente ‘di minoranza’, come quella di George W. Bush Junior nel 2000», non hanno comunque «rappresentato alcun drammatico balzo in avanti della partecipazione elettorale degli americani», con l’affluenza al voto del 63,6 % degli aventi diritto effettivo nel 2008, ridiscesi al 61,8 quattro anni dopo (dati che comunque suggeriscono una crescita nel XXI secolo rispetto alle bassure assolute di metà anni novanta, anche se gli iscritti alle liste elettorali restano attorno al 70%).

Le note si fanno ancora più dolenti quando da questa dimensione passiamo a quella del potere economico e della sua capacità di erodere «progressivamente la stessa forza del sistema politico democratico» con una penetrazione dei comitati elettoral-lobbistici in vario modo controllati dalle grandi corporations tale da indurre Bergamini a ricorrere all’ormai celebre formula della «post-democrazia» di Colin Crouch. Per non parlare delle difficoltà dello stato sociale nella morsa neoliberista, esaminate con acume nel quarto capitolo, o dei persistenti e anzi per certi versi aumentati problemi delle minoranze, con in testa ancora una volta gli afroamericani, a dispetto dei facili trionfalismi sulla presunta era post-razziale introdotta dall’avvento di Obama.
A questo punto, però, l’utilissima rassegna di Bergamini va forse integrata gettando in campo una parola che nel libro, in ossequio a Tocqueville, non compare, ma che invece è tornata al centro dell’indagine storiografica statunitense degli ultimi anni, tanto da ispirare un intero filone di studi e ricerche. La parola, vecchia di tre secoli, ma sempre nuova, è «capitalismo».

Beninteso, non si tratta di fare le pulci a un libro, che conserva una forza invidiabile a tanti anni dalla sua prima pubblicazione, contrapponendogli un suo fantasma. Si tratta piuttosto di cambiare registro e interrogarsi, sulle orme di David Montgomery e oggi di Alice Kessler-Harris o di Steve Fraser, su quanta e quale liberaldemocrazia sia compatibile col capitalismo/i, statunitense e globale. E attorno a questo articolare un’agenda di ricerca interdisciplinare, magari impossibile in un paese sgangherato come il nostro, ma il cui solo pensiero promette di tenerci svegli nella notte buia dell’eterna commedia tra gufi e volpi sotto le ascelle.