Il Coronavirus si porta via anche Lee Konitz, da un letto del newyorkese Lenox Hill Hospital, il 16 aprile scorso, lo stesso giorno in cui il virus maledetto, nel reparto dell’Università di Medicina a Oviedo, uccide il grande romanziere cileno Luis Sepúlveda.
Konitz, 92enne, tra le pochissime leggende contemporanee, è il jazzman che affronta da quieto riservato protagonista, in tre quarti di secolo di ininterrotta carriera, la fase più intensa della storia musicale afroamericana, inserendosi con il proprio sax alto – che abbandona solo in rarissime occasioni per altri strumenti consimili – nel turbinio di stili che dal 1943 (anno del primo ingaggio nella formazione del misconosciuto Jerry Wald) lo porteranno via via a primeggiare nello swing, nel progressive, nel cool, nel mainstream, persino nel free e nelle avanguardie, sino a crearsi un personale post-bop che non lo abbandonerà mai e sul quale, scommetterà anche per il futuro, tant’è che in rete si possono ancora leggere gli ormai tristi annunci di una tournée prevista nel 2020/2021 in tutto il mondo.
Konitz nasce il 13 ottobre 1927 a Chicago, anno e luogo emblematici per lo sviluppo del jazz in una metropoli cosmopolita che tiene a battesimo le due «scuole» del ritmo sincopato della crazy era: la foga black espressionista alla Louis Armstrong e la freschezza europeizzante, bianca dunque come Konitz, di Bix Beiderbecke; quest’ultimo alla cornetta e Frank Teschmacher (clarinetto e sax alto), entrambi poco più che ventenni, suonano già cool, risultando i diretti ispiratori di quel suono in Italia tradotto come «jazz freddo» (meglio «fresco» o «fico») inventato in contemporanea da Lennie Tristano, Miles Davis, John Lewis, Gil Evans, in cui Lee s’imporrà quale protagonista. Benché per anni miglior coolster al sax alto, Konitz riesce abbastanza presto a superare un jazz congelato dai vari Gerry Mulligan e Chet Baker (e da tutta la «parentela» californiana), avventurandosi verso ricerche e sperimentazioni anche a costo di sacrifici e compromessi.
PROBLEMA RISOLTO
Konitz infatti risolve l’annoso duplice problema di accontentare i fan e di suonare ciò che ama, sdoppiandosi da un lato nel performer gentilmente disponibile dal vivo in contesti eterogenei, tra scambi, incontri, jam session, quasi sempre di ottimo livello, dall’altro nel musicista impegnato a imprimere svolte persino radicali al proprio suono in situazioni artistiche impegnative, mutevoli, inaspettate.
Si può capire la doppiezza (o dualismo) musicale di Lee fin dagli esordi professionali quando inizia a studiare con il pianista Lennie Tristano e al contempo a suonare nell’orchestra swing di Claude Thornill già proiettata verso la breve stagione del cosiddetto jazz progressivo, di cui la big band di Stan Kenton (dove lavorerà anche Konitz) sarà l’unica espressione compiuta sotto il profilo musicale.
Sull’intenso sodalizio artistico fra Lee e Tristano, protrattosi lungo vent’anni, esiste già un’abbondante letteratura, a sottolineare la messa a punto di un’estetica cool che guarda avanti, giungendo persino ad anticipare l’informale nei brani Digression e Intuition, privi di sviluppi melodici e senza centri tonali, come nella free improvisation di Ornette Coleman di dieci anni successiva. Nel gruppo di Lennie c’è pure un altro saxman, al tenore, Warne Marsh, di soli 13 giorni più giovane di Lee, da allora, fino alla scomparsa (1987), una voce quasi all’unisono di un cool jazz perenne e al contempo aggiornatissimo: cofirmeranno, infatti, oltre l’esordio discografico Subconscious-Lee, l’omonimo album Lee Konitz & Warne Marsh (1955) e il live Again (1975). Tristano e Marsh, per Lee, simboleggiano il 1949, come pure il mitico The Birth of the Cool di Miles Davis, in cui Konitz è l’unico altista della leggendaria Tuba Band, accanto a futuri mostri sacri quali Gil Evans, Gerry Mulligan, John Lewis, Gunther Schuller, Max Roach, Jay & Kay eccetera.
IN VIAGGIO 
Da allora la vita di Lee si spartisce, freneticamente, tra viaggi e tournée, incisioni e recital, sempre all’insegna di nuovi soggiorni in città diverse e di fronte a scenari artistici, con rinosciuti maestri, giovani talenti, imprevedibili sperimentatori: l’elenco in tutti e tre i casi è lunghissimo! Parlando in termini di decenni, infatti, gli anni Cinquanta sono la conferma del Lee coolster, i Sessanta vedono l’altista mettersi in gioco di fronte alle nascenti avveniristiche sonorità, i Settanta iniziano a celebrare un estro benvoluto ormai da pubblici intergenerazionali, gli Ottanta e i Novanta osannano (nonostante i dubbi della critica) l’instancabilità dell’uomo e dell’artista in moto perpetuo, il XXI secolo dissolve ogni perplessità su un modus operandi intrinseco alla poiesis di un jazzman davvero sui generis.
Inoltre, da metà Sixties Konitz opta soprattutto per la formula del duetto, «pratica» e praticabile ovunque, rinunciando a una propria band stabile e accettando persino di esibirsi all’estero con formazioni locali ogni volta diverse da stato a stato, talvolta persino da città a città, durante i tour europei: per i maligni si tratta di una scelta al risparmio o addirittura di un atteggiamento opportunista, ma alla luce dei risultati conseguiti (testimoni i molti dischi o le registrazioni pirata) si tratta di un modus vivendi e operandi dove arte ed esistenza risultano, senza clamori o esagerazioni (come invece per molti saxmen border line, da Charlie Parker ad Art Pepper, da Joe Henderson a Massimo Urbani), un unicum jazziale.
Guardando infatti al copioso elenco di grandi album, si può ricordare come il genio di Konitz prenda il sopravvento all’ascolto via via di Motion (1961) in trio verso il free, Duets (1967) con 9 diversi eccelsi partner, Lone-Lee (1975) in solo con due brani rispettivamente di circa 40 e 20 minuti, Tenorlee (1978) unicum al sax tenore in trio senza batteria, Toot Sweet (1982) soave duetto con Michel Petrucciani, e gli ultimi due, al momento pubblicati, Prisma (2017) per sax e orchestra sinfonica e Decade (2018) assieme a Dan Tepfer.
A CASA NOSTRA
Proficuo anche il rapporto con l’Italia da Stereokonitz (1968) in quartetto italiano con il gruppo di Giovanni Tommaso (Enrico Rava, Franco D’Andrea, Gegè Munari) in cui usa il varitone (sax elettrico), a Impressive Rome (1968) in duo con Martial Solal, da Blew (1988) ospite dello Space Jazz Trio di Enrico Pieranunzi a A Venezia (1993) con l’Orchestra Il Suono Improvviso, dai 9 cd con i pianisti Stefano Battaglia, Franco D’Andrea, Stefano Bollani, Umberto Petrin e Renato Sellani (ben 4) fra il 1993 e il 2003, ai molti lp e cd con le label nostrane Horo, Tramonti, Soul Note, Philology.
La piena valorizzazione critica del Konitz musicista avviene solo nel 2007 con il libro Lee Konitz. Conversations on the Improviser’s Art (pubblicato in italiano nel 2010 dalla EDT) del filosofo Andy Hamilton, il quale nel ricostruire l’estetica del saxman dialoga con una trentina di jazzisti, da Phil Woods a George Russell, da Sonny Rollins a Ornette Coleman, da Paul Bley a Evan Parker, da Wayne Shorter a Bill Frisell, che nel corso degli anni improvvisano con Lee in concerto, jam session o sala di registrazione: unico italiano contattato Enrico Pieranunzi, che lo ricorda con affetto, stima, positività, giacché «si interessa decisamente all’improvvisazione. Abbiamo fatto molti concerti intono alla metà degli anni Ottanta in cui abbiamo completamente improvvisato, senza far riferimento ad alcun brano. Lavorare con lui è stata per me una grande scuola, ed è poi diventato naturale alternare brani con roba del tutto improvvisata».
Ma c’è dell’altro, che riguarda sia il fraseggio sia l’interplay: «Ha una gamma e una combinazione di note che ogni volta suonano in maniera diversa e che virtualmente sono infinite, ed è molto particolare». Inoltre «in qualche modo Konitz costringe gli altri a interagire, basta solo il suo approccio, o il suo fraseggio. Ti porta in un territorio differente e imprevedibile. È davvero una specie di tabula rasa. È speciale».