Una serata del dicembre 1997 Lee Konitz con il suo sax alto suonava al Jazz Bakery di Culver City, in California. Si esibiva con un trio di forti personalità: Konitz 70enne, il contrabbassista Charlie Haden 60enne e il pianista Brad Mehldau 27enne. Verso la fine della ballad Everything Happens to Me (standard battutissimo, da Chet Baker e Keith Jarrett) il trio tacque e l’alto restò come sospeso, in solitudine, a tratteggiare armonia, melodia, improvvisazione e ritmo: il sassofonista sapeva smontare e rimontare ed estrarne nuove, inedite, toccanti melodie. Uno dei momenti magici (è nell’album Another Shade of Blue) delle migliaia di concerti che Lee Konitz ha tenuto in settantacinque anni di carriera, iniziata a sedici anni nel gruppo di Jerry Wald e conclusasi il 15 aprile scorso, al Lenox Hill Hospital di New York.

IL 92ENNE jazzman (nato nel 1927), artisticamente attivo fino all’ultimo, era stato ricoverato per una polmonite aggravatasi a causa del Covid-19. É il quarto jazzista vittima del coronavirus, dopo il chitarrista Bucky Pizzarelli (classe 1926), il pianista-didatta Ellis Marsalis (1934) e il trombettista Wallace Roney (1960). E pensare che, mentre Konitz si spegneva, al Lincoln Center – sempre a Ny – Wynton Marsalis dava il via ad una maratona jazz contro la pandemia (Worldwide Concert for our Culture) collegandosi con artisti di tutto il mondo, tra cui Stefano Di Battista.
In Lee Konitz molti sono i tratti, non solo biografici, che lo identificano con gran parte della vicenda e dell’estetica del jazz. Fondamentale il suo imprinting giovanile con Lennie Tristano, conosciuto negli anni ’40 a Chicago e frequentato poi nella sua domestica scuola newyorkese. È qui che Konitz entra nel laboratorio creativo del pianista, conosce il tenorista Warne Marsch suo «gemello» strumentale (assoluti i loro unisoni), impara ad improvvisare su armonie complesse ma anche in aree pantonali e libere (Intuition, Digression), elabora le idee che lo portano al primo, maturo album, Subconscious Lee (1949). L’altosassofonista è presente, in modo qualificante, in molti degli snodi del jazz: è nel nonetto di Miles Davis che sancisce la nascita del cool (1948-’50), collabora spesso con maestri della composizione e dell’arrangiamento (Gerry Mulligan, Gil Evans), milita nell’orchestra dei Stan Kenton (1952-’54) e quando può è sempre al fianco di Lennie Tristano negli anni ’50 e ‘60. Nel 1985 dichiarò alla rivista statunitense «Down beat» di «essere fedele a quelli che ritengo i saldi principi (di Tristano), e questo significa soprattutto offrire sempre un prodotto etico».

INTERROGATO in proposito da Andy Hamilton (autore del volume, costruito su interviste con l’altista e i molti che incrociarono la sua carriera, Lee Konitz. Conversazioni sull’arte di improvvisare, Edt 2010) il jazzista chicagoano spiegò che «è un qualcosa legato alla mia musicalità, che esploro ogni giorno. Per un verso , tenere conto delle persone per cui sto suonando, ma suonare soprattutto per me e per quelli che suonano insieme a me, e in qualche modo aspettarmi da loro lo stesso. Se la musica arriva con chiarezza a persone che la possono sentire e possono reagire, allora credo di aver perseguito e ottenuto un risultato etico». Rigore, comunicativa, ispirazione, ricerca, disponibilità, dialogo. Tutto questo è presente nell’intera parabola di Konitz mentre il suo suono, da affilato e flautistico, diventò nel tempo più corposo e materico senza perdere l’aroma bluesy e la inesausta capacità di inventiva melodico-ritmica che ha eguali solo, probabilmente, in Paul Bley.

Lee Konitz per tutta la vita non ha mai smesso di essere interessato alle novità praticando l’insegnamento, imparando il flauto, utilizzando un sassofono elettrico (Varitone), cimentandosi in un numero quasi incalcolabile di duetti, autentici incontri/confronti con altre personalità sonore. Qualche nome che rende l’idea della gamma espressiva-stilistico-generazionale dei duos konitziani: Derek Bailey, Stefano Battaglia, Karl Berger, Harold Danko, Hal Galper, Jimmy Giuffre, Elvin Jones, Jim Hall, Joe Henderson, Ray Nance, Michel Petrucciani, Martial Solal… Konitz lo si trova nei Primordial Jazz Five di Roswell Rudd, a fianco di Mingus, con Bill Evans e in tanti altri organici per la sua capacità dialettica, di ricerca di un terreno comune senza rinunciare alla propria personalità, di scavo di proprie e altrui composizioni o degli amati standard.

DI FREQUENTE in Europa, spesso in Italia, l’altosassofonista ha suonato con pianisti da Renato Sellani a Stefano Bollani passando per Franco D’Andrea e Enrico Pieranunzi come con giovani formazioni quali la veneziana orchestra Il suono improvviso (1993). «Una volta – ha raccontato ad Hamilton Pieranunzi – subito prima di salire sul palco, Konitz disse a me, al bassista e al batterista: ‘Ok, ragazzi, siete pronti a improvvisare davvero?’. Ci ha dato una scossa. Ci siamo sentiti molto liberi, anche di suonar le note sbagliate, di andare ovunque». Questo è il jazz, questo era Lee Konitz.