A ben otto anni dal precedente Poetry, Lee Chang-dong ritorna sulla Croisette e nel concorso principale con Burning, film tratto da un racconto breve di Murakami. Il plot minimale ed ellittico diventa fra le mani del regista coreano l’occasione per una profonda riflessione politica sulle trasformazioni subite da una generazione sacrificata sull’altare del neoliberismo più spietato. Jong-soo (interpretato dal fascinoso Ah-in Yoo) ritrova casualmente Hae-mi (Jong-seo Jeon) una sua compagna di scuola di molti anni prima. Lei vive in una microscopica stanza nella quale i due fanno l’amore subito dopo. Hae-mi, che è in procinto di partire per l’Africa, chiede poi a Jong-soo di badare al suo gatto durante la sua assenza (una situazione tipicamente murakamiana). Al suo ritorno la ragazza presenta a Jong-soo, Ben (Steven Yeun).

Ben ostenta la sua ricchezza mentre Jong-soo deve ancora fare i conti con l’assenza di un padre detestato e condannato per una serie di reati con le cui conseguenze deve ancora fare i conti. Hae-mi, invece, si divide fra i due platonicamente nonostante Jong-soo soffra segretamente di gelosia. Sino al giorno in cui Hae-mi scompare senza lasciare traccia, gettando così Jong-soo nello sconforto più nero. Lee Chang-dong si prende tutto il tempo necessario per costruire il suo film. Assecondato dal magistrale direttore della fotografia Hong Kyung-pyo (che vanta al suo attivo cose come Save the Green Planet!, Mother, Snowpiercer e The Wailing per limitarci ai titoli più noti della sua filmografia), il regista riesce a creare pur utilizzando un formato molto ampio uno saggio intimo sulla metastasi della paranoia.

Sullo sfondo di una disoccupazione giovanile molto acuta, l’erosione del mondo di Jong-soo e delle sue pochissime certezze, diventa il segno di un malessere profondo. Lee Chang-dong osserva i suoi protagonisti nella loro relazione con il mondo circostante e gli oggetti attraverso i quali questi si relazionano con esso. Lo spazio dell’inquadratura è attraversato da potenti tensioni che restano come in sospeso a segnalare l’impossibilità dei personaggi ad avvicinarsi fra di loro. Esemplare, in questo senso, la danza al tramonto di Hae-mi, momento forse fra i più intensi di tutta la competizione ufficiale. Nonostante il film smarrisca forse un poco il suo mirabile equilibro di non detti dopo la scomparsa di Hae-mi, dando così spazio all’ «avventura» di Jong-soo che si mette sulle tracce di Ben tentando di trovare tracce della sua colpevolezza, Burning riesce a tenere altissima l’attenzione dello spettatore lavorando sul progressivo smarrimento del protagonista.

Il finale, amarissimo, crea un vuoto che rifiuta di essere spiegato o detto. Tutto resta sospeso in un grumo di dolore divorante. Da sempre estremamente critico nei confronti delle sorti magnifiche e progressive della Corea del sud, Lee Chang-dong crea con Burning un film impressionante per compattezza e tensione. Un autentico saggio di regia da parte di un autore che non ha perso un’oncia della sua forza e immaginazione, nonostante la lunga assenza dal set. Segnalazione finale, ma obbligatoria, per il commento musicale minimale e scarno di Mowg, compositore coreano dal tocco inconfondibile.