In una delle edizioni storiche della Mostra di Pesaro si scoprì per la prima volta un volto inedito degli Usa: in film indipendenti, mai arrivati nelle sale, comparivano disoccupati, reduci da Vietnam in stato di disordine mentale (tra cui un Fonzie fuori ordinanza, in Heroes di Jeremy Kagan, ’77), perfino homeless, e lo stato infimo delle riserve. Quell’edizione di fine anni ’70 ribaltava tutto l’immaginario. Nel programma della Mostra di quest’anno ha avuto lo stesso effetto la personale completa dei film di Lee Anne Schmitt per la prima volta in Italia (a cura di Rinaldo Censi) che con il piglio di una vera pioniera si è spinta verso la frontiera in un continuo on the road in auto per raccontare i segreti ancora sepolti del West, ovvero come la Frontiera ha trasformato la natura e la cultura, come il capitalismo ha modificato il paesaggio e il modo di vivere delle persone. Il suo lavoro di ricognizione del territorio ricorda quello degli archeologi inglesi che mappavano terre sconosciute, ma a scopo politico: le riprese di Schmitt fanno parte fin dall’inizio di un complesso discorso teorico militante, basato su studi approfonditi, testimonianze e materiali, tanto da farne parte anche visiva soprattutto nei primi lavori (Bowers Cave, 2010) dove intere frasi fanno da orizzonte che scorre davanti ai nostri occhi, sovrapposto a quello nella zona di Castaic, nei paraggi di Los Angeles. Lì nel 1885 due ragazzi scoprirono una grotta dove gli indiani Chumash avevano nascosto le loro preziose reliquie religiose, manufatti, pietre, scalpi, piume, la più grande raccolta del genere rinvenuta negli Stati Uniti, nascoste ai frati che osteggiavano il materialismo dei nativi non riuscendo a far loro comprendere il concetto di immortalità dell’anima . Nel luogo della caverna oggi c’è una discarica. Quei reperti oggi sono patrimonio museale, ma imballati, etichettati «come reperti di un delitto» e riposti nei sotterranei.
Così come nelle terre di conquista l’occhio del conquistatore non vedeva nulla a perdita d’occhio, non percepiva né individui né oggetti né tanto meno il genius loci, anche per lo spettatore potrebbe accadere lo stesso a osservare le sterminate praterie, non fosse per l’esplorazione cinematografica della sua 16mm che ha sempre usato fin dalla prima Bolex. In The last Buffalo Hunt (’76) firmato con Lee Lynch, dove lo sguardo si perde nelle distese dello Utah: il non visibile sono i cinque milioni di bisonti uccisi, strategia per sterminare anche gli indiani privati della loro principale fonte di sostentamento: la caccia ai bisonti, di cui Buffalo Bill ebbe il primato, ha lasciato in vita oggi solo pochi esemplari ed altrettanti sparuti cowboys. Vediamo,emula di Sarah Palin membro del National Rifle Association, una cacciatrice fiera dei suoi svariati trofei («mi piace andare a caccia e fare shopping»). Una vita passata tra cavalli e mucche è ormai al declino, ricchi appassionati del turismo selvaggio riforniscono le casse degli ultimi vaccari che li portano a colpire bersagli sicuri con la sola regola di non ammazzare più bisonti di quanti ne puoi scuoiare, beninteso non prima di aver effettuato lo scatto ricordo. Mentre un po’ alla volta il filmato irrompe nell’horror, affonda nella carne palpitante dell’animale ucciso e tagliato in diretta, il sangue che arriva fino al gomito, come a evocare l’indole bellica di un popolo («sai quante migliaia di questi bastardi ho ucciso?» e non sai se si parla di bisonti o di Vietcong, evocati appena prima al fuoco di bivacco, tra battute machiste un po’ sconce e ricordi di guerra. Il popolo di Trump.
«Ho cominciato a lavorare con un collettivo di sette donne, racconta Lee Anne Schmitt, ho studiato arti performative, interessate al paesaggio di Chicago, con le sue fabbriche dismesse. Ho iniziato a riprendere i paesaggi per inserire negli spettacoli immagini e gestualità. Erano spettacoli postmoderni con danzatrici e Pina Bausch come punto di riferimento, basati su testi e ricerche che avevano a che fare con la storia e la memoria . Ho imparato a usare la Bolex e il tavolo di montaggio…forse il video sarà più democratico, ma a me piace il 16mm perché è più materico. Questo mi ha fatto avvicinare ai paesaggi, a come cambiano paesaggi e persone. A quel punto dal 2000 ho cominciato a studiare cinema alla CalArts (California Institute of Arts) avendo come insegnante Tom Anderson, figura chiave con cui ho collaborato. Faccio tutto da sola anche per motivi economici. Fino al ’90 infati si poteva far conto dei finanziamenti pubblici per iniziative artistiche, poi sono spariti. California Company Town (’76) è nato per trasmettere quello che avevamo appreso, un’affermazione politica e generazionale, su come lo sviluppo industriale ha influenzato la trasformazione della California. Io venivo da Chicago, una metropoli industriale ben diversa da Los Angeles. Lì ho cominciato a esplorare i suoi dintorni, a filmare i cambiamenti dovuti alla chiusura delle fabbriche di tipo più svariato. Non potevo immaginare la dimensione politica che il film avrebbe preso». Si tratta in effetti un lungo viaggio tra diciotto città satellite oggi disabitate, alcune fondate da idealisti visionari che pensavano di eliminare la proprietà privata, concedere non più terra di quanta fosse possibile coltivare, fornire alloggi a tutti. Il film è una lunga ricognizione di luoghi tra miniere d’oro abbandonate, campi petroliferi, basi aerospaziali, la raffineria di Richmond, i campi di Keene dove il sindacato agricoltori lottava per condizioni più umane di vita, oggi terra bruciata, Salt Lake City che sarebbe dovuta diventare il paradiso dello sci d’acqua e della pesca, per terminare, salto nel futuro, sui verdi prati deserti di Silicon Valley. Una specie di straordinario canto funebre del capitalismo, capace però di riconvertirsi altrove dove sia più conveniente, un grande romanzo della storia americana, lavoro di archeologia del presente. Culmine del lavoro di Lee Anne Schmitt si può considerare Purge This Land (Purifica questa terra, 2017), ultimo della serie «paesaggi e politica» che nasce dal medesimo stile di ricerca ed esplorazione, ma anche da motivazioni autobiografiche, in quanto il suo compagno è il musicista afroamericano Jeff Parker autore delle musiche dei suoi film, opera che «riveste un carattere di attualità con il nuovo presidente degli Usa». È un film basato sulla militanza di John Brown, pietra miliare dell’abolizionismo, che progettava di organizzare una milizia per liberare gli schiavi poiché definiva la schiavitù uno stato di guerra. «Nel 2016 era evidente la dinamica dello scontro razziale, una costante che non si è mai arrestata, ho terminato il film dopo la nascita di mio figlio, ed era pronto nel momento del crollo. Buffalo è stato accolto nell’era post Obama, anche le città abbandonate avevano un’origine biografica, ispirate alle idee politiche di mio padre che lavorava in un’industria chimica, Purge ths Land nasce dal fatto che non potrò mai capire cosa proverà mio figlio, di cui dicono: non si vede neanche che ha un padre nero, come fosse un complimento». Scandisce questa storia messa tra parentesi dall’ufficialità con precisione, si sofferma sui luoghi cancellati, sul divieto ad opporre targhe che ricordino gli eventi tacciati di terrorismo (Max Weber, ricorda, scrive che «lo stato ha il monopolio della forza, tutto il resto è considerato terrorismo»), si sofferma sulle date cruciali come il 1850 della «legge sugli schiavi fuggitivi» e della lotta per rendere il Kansas uno stato schiavista, le rivolte razziali di inizio secolo e avanza e indietreggia con il montaggio a seconda dove la porta il viaggio in auto nei luoghi da riscoprire e raccontare, come lo Iowa dove Hugh Forbes che aveva combattuto con Garibaldi si unisce a Brown o seguendo anche i suoi personali trasferimenti da Chicago con il suo «razzismo elegante» fatto di prezzi esorbitanti degli alloggi e la chiusura del 70% delle scuole nei quartieri poveri, fino a Los Angeles. Per terminare con la lettera di un condannato a morte per impiccagione tra i seguaci di John Brown che scrive: «è un paese bellissimo, non l’avevo visto, ma è in dubbio che sia vero».