Luc e Djamila si incontrano per caso alla fermata del bus, lui è un ragazzo di provincia che i passi incerti nella metropoli parigina li trasforma in seduzione, lungo il tragitto sono sguardi, silenzi, un desiderio muto: vedersi dopo poche ore, camminare insieme, forse baciarsi, e poi? Sarà amore o è solo un breve incontro? Le Sel des larmes, il nuovo film di Philippe Garrel, nel concorso della Berlinale, ha la tonalità del bianco e nero di Renato Berta – «Lavoro con lui perché è uno dei pochi a sapere cosa è il chiaroscuro»spiega il regista – e il movimento dei passi e delle emozioni che attraversano tutti i suoi film, e quasi a riprendere quell’autofinzione che è la sua filmografia;il punto di vista rispetto al precedente L’ombres des femmes torna al personaggio maschile, è nel suo sguardo che prendono forma le diverse donne che incontra, tutte incompiute nell’inquietudine che lo spinge altrove. È dunque una variazione nella poetica del regista – la sceneggiatura la firmano lo stesso Garrel insieme a Jean Claude Carrière e Arlette Langmann – la cui grandezza è però riuscire a sorprendere (e a sorprendersi) ogni volta, mettendo in dialogo il proprio universo col tempo che lo abita e i sentimenti con l’esperienza del vissuto.

SIAMO oggi anche se nessuno dei personaggi ha un cellulare – il «cedimento» di Luc al telefonino arriva dopo molto – le strade di Parigi hanno lasciato posto a un periferia più lontana o appunto alla provincia, i luoghi dove oggi quei personaggi né ricchi né borghesi possono abitare; il padre di Luc è un falegname e per pagargli la scuola di ebanista e la stanzetta nella capitale fa grossi sforzi ma è quello che aveva sempre sognato nel futuro del figlio. Luc (Logan Antuofermo) riesce a entrare nella scuola, l’incanto di Djamila (Oulaja Amamra) è divenuto rimpianto, nella sua vita è riapparsa Geneviève (Louise Chevillotte), la ragazza del liceo, i due stanno insieme anche se lui pensa a Djamila, sono una coppia, potrebbero sposarsi, la ragazza teme il trasferimento di Luc a Parigi e quando gli dice di essere incinta lui fugge … Poi arriva Betsy (Sohueila Yacoub), giovane infermiera, è bella, selvaggia, con lei Luc sperimenta un’altra declinazione della relazione amorosa, un rapporto «aperto», in tre stipati nella miniscola stanzetta del ragazzo, senza soldi, con un po’ di follia, ascoltando i propri respiri…

È UN ROMANZO di formazione sentimentale Le Sel des larmes, tra le ferite e le aspettative deluse che ogni storia d’amore porta con sé, pure se il suo centro è altrove, prima che nelle seduzioni del ragazzo nel suo legame col padre; è a questo rapporto che il film torna continuamente, frammento a nella narrazione del cineasta. In Luc e suo padre (André Wilms) si specchiano Garrel e suo padre Maurice, quasi come nei rispettivi mestieri, uno attore l’altro regista – creatore di storie ebanista delle immagini? E l’affetto dei gesti, delle consuetudini, tratteggia con una speciale dolcezza questo confronto, anche quando critico, anche quando il padre non capisce il figlio, svelando la distanza e la serenità di un’età adulta, non polemica, di prossimità prima che di ribellione.
Per Luc e tutti gli altri non c’è più la politica, ci sono altre storie, una diversa dimensione dello stare al mondo; l’incontro, la casualità, l’immediatezza, la violenza. E la fatica della vita, di inventare una resistenza al proprio tempo. Garrel lo sa catturare, pure negli inciampi, e renderlo cinema e quindi in qualche modo anche fuori dal tempo – come una scena di ballo che ricorda i sessantottini di Les Amants régulier. Un’epifania.

«FIRST COW» di Kelly Reichardt era stato proiettato in anteprima mondiale al New York Film Festival. È curioso di trovarlo a Berlino in competizione ufficiale. Come se la 70a Berlinale penasse a trovare film americani di rilievo. D’altro canto, è così bello che non ci si può lamentare di aver avuto l’opportunità di vederlo. Il film comincia nell’Oregon contemporaneo, traversato da treni diesel dalla voce così familiare, ma ancora macchiato di boschi. Una ragazza ed un cane, la coppia tipica dell’universo di questa cineasta, si aggirano in cerca di qualcosa da mangiare. Cercando funghi sotto il fogliame, la ragazza rinviene un teschio, e scavando fa apparire due scheletri, come sdraiati l’uno accanto all’altro. La storia di First Cow esala da questi due corpi, di cui conosceremo presto la vita. E viene certo da pensare a Proust e alla sua famosa madelaine, se non fosse che questa è effettivamente citata più in avanti quando un borghese commerciante di pelli, assaggiando una frittella, è invaso dal ricordo involontario d’un quartiere elegante di Boston. Questo ricordo affiora alla coscienza individuale del borghese, mentre la storia a cui queste spoglie ci rinviano appartiene ad un altro tipo di coscienza storica. Fa rinvenire gesti e modi di esistenza d’un gruppo sociale attraverso la storia. Come la ragazza raminga, anche uno dei due eroi vive di raccolta, e viaggia con un gruppo di cacciatori di pelli sull’Oregon trail, com’era prima della costruzione della ferrovia. Una notte trova un uomo nudo in un cespuglio.

 John Magaro e la mucca Evie in «First Cow» di K. Reichardt
John Magaro e la mucca Evie in «First Cow» di K. Reichardt

IL RACCOGLITORE è un cuoco soprannominato Cookie. L’uomo nudo è un fuggitivo di nome King-Lu. La loro amicizia, dentro un mondo di uomini lupi con gli altri uomini, è commovente dall’inizio alla fine, e vale come un manifesto politico. Reichardtla mette alla prova d’una vicenda semplice e bellissima. Mai il west è stato raccontato con tanta efficacia o, si dovrebbe dire, con tale scienza. Vedere First Cow è come visitare un museo di storia naturale e uno di antropologia. Ci si entra con il racconto. E una volta dentro si rimane affascinati dalla miriade di dettagli che, pur riprendendo dei luoghi conosciuti del genere (il saloon, il fortino, la casa nella prateria), ne svelano la realtà effettiva. Com’era il denaro, fatto di strani assegni bianchi, o di monete spaccate in due o in quattro parti (letteralmente: a quarter of dollar), o le carte da gioco, o ancora gli strumenti della cucina, i vestiti, le scarpe, le mantelle dei coloni e degli indiani.

COOKIE E KING-LU vivono, si diceva, di raccolta. Entrambi hanno dei progetti: un hotel a San Francisco, oppure una panetteria. Da dove cominciare ? La regista (e il suo sceneggiatore) mettono allora in bocca a King-Lu un concetto ripreso tale e quale a Karl Marx: «per iniziare un’attività ci vuole denaro. Ma il Capitale iniziale come lo si ottiene ? Ci vuole un miracolo… Oppure un furto». Sarà il secondo. È a questo punto che la first cow, prima vacca, entra in gioco. Si tratta, letteralmente, di spiegare l’accumulazione primitiva. Il film si carica di questa fatica teorica sciogliendola nel racconto dell’amicizia di Cookie e King-Lu. Nel farlo, sbaraglia con la naturalezza del genio tutta l’ideologia dell’America bianca, mostrando un paese da subito cosmopolita, in cui i bianchi non sono né i primi, né i più intraprendenti, ma solo i più armati e spietati.