Che tipa la Signorina Else, protagonista del bellissimo racconto di Arthur Schnitzler: non disdegna di tanto in tanto di farsi avanti sulla scena, prima di spogliarsi e morire. Come in una visione di qua e di là della morte, Federico Tiezzi ce ne ha dato ora una visione fremente e destabilizzante, in una ambientazione che punge nel ricordo quanto la tragedia della ragazza protagonista. Perché la sua storia è proprio quella di una educazione sentimentale a rovescio. La prima parte del suo monologo, un vero flusso di coscienza e insieme di superficiale vanità, ce la mostra consapevole e determinata, libera di pensiero e di costumi (quella nudità fatale pare la avesse già compiaciuta, stesa su certe statue ai bordi di una certa fontana).

Ora però è in vacanza da sola, a San Martino di Castrozza, nido estivo di molti ricchi viennesi. E lei non disdegnerebbe il divertimento o almeno qualche brivido di birbonata se le pretese della famiglia, vittima di una rovinosa caduta finanziaria, non le richiedessero di mescolare i propri ardori giovanili e le pulsioni più segrete, con le rigide leggi dell’economia. Ovvero chiedere al «vecchio amico» di casa, anche lui in vacanza nella località alpina, un prestito immediato e cospicuo per tamponare una falla degli sconnessi bilanci paterni. E lui, il vecchio Dorsday, lucido e inflessibile ma a suo modo «innamorato», non chiede in fondo in cambio che una «visione», per di più rapida: quella del corpo nudo di lei.

In poche pagine, il racconto di Schnitzler, del 1924, costruisce un solido impianto drammaturgico, dove confluiscono la psicanalisi e la scrittura del primo «flusso di coscienza», l’economia e le sue leggi tanto severe quanto fasulle, con la tragedia della Finis Austriae e il capitombolo della Vienna felix. Perché in questo percorso individuale, breve quanto brutale, dall’illusione giovanile e dal desiderio fino alla morte, c’è un respiro tragico che coinvolge il mondo intero.

Una vicenda che si fa storia assoluta, paradigma di un viaggio alla morte, che dalla sua fine assurda Tiezzi fa cominciare. Venti o trent’anni fa, Thierry Salmon si era misurato con la stessa Signorina Else, per sottolinearne soprattutto il carattere di tragedia indicibile, quasi che si potesse a stento solo «ascoltare».
E per questo aveva trasformato l’intero teatro in un gigantesco apparecchio radio. Tiezzi invece (con la traduzione curatissima di Sandro Lombardi) letteralmente sprofonda l’intera vicenda dentro un teatro.

Anche se è un teatrino scientifico, quello in uso un tempo nelle facoltà di medicina, tanto da trasformare il racconto in un vivente, contraddittorio referto autoptico. Teatrini scientifici come aule di anatomia non mancano in molti storici nosocomi, ma quello dell’antico Spedale del Ceppo a Pistoia è di tale bellezza e magnificenza, da far emozionare il pubblico all’unisono con i personaggi , auspici anche i musicisti di un piccolo ensemble da camera.

Del resto lo spettacolo è anche una straordinaria prova d’attrice, Lucrezia Guidone (allieva molto amata di Luca Ronconi, e con Tiezzi già nel Calderon) percorre instancabile la scala di una partitura che non risparmia nessun tono e nessun dubbio, nessuna illusione e nessuno scandalo per la vicenda che Else si trova a vivere. A fianco a lei, la «razionalità» capitalistica del borghese Dorsday non può limitarsi che a farle sponda e muro, con il coinvolgimento misuratissimo di Martino D’Amico. È lei il «corpo», del sogno e del reato, fin dall’inizio del viaggio a ritroso, da cadavere sotto il lenzuolo al racconto di quel tuffo fatale nell’esperienza adulta.