Dell’arte, della sua importanza nella percezione del mondo e nella capacità di affrontarlo e, forse, di cambiarlo dice, con libertà e progetto, Le dernier coup de marteau, film in concorso della francese Alix Delaporte, già al Lido nel 2006 con il corto Comment on freine dans une descente? e nel 2010 con Angèle et Tony. Al centro del film c’è Victor (Romain Paul), un quattordicenne dallo sguardo attento, bravo a scuola e sul campo di calcio, che vive con la madre Nadia (Clotilde Hesme) in una roulotte accampata vicino al mare. La loro complicità è descritta con poche parole e qualche movimento affiatato tra gli angusti spazi interni e la profondità dei paesaggi che li circondano.

Quando, durante una gita nei boschi, i due si trovano su una roccia alta sul torrente, basta uno sguardo perché lei decida di tuffarsi e lui di seguirla. Al momento di riemergere, però, la donna si ritrova con la testa nuda, la parrucca nera finita lontano. Siamo a una svolta: Victor non reagisce, lasciando così lo spettatore solo con il suo stupore e la necessità di riorientare le proprie aspettative verso la tragedia. Delaporte gioca una partita aperta con chi vede il suo film, esige attenzione ma non lo forza mai, e soprattutto gli fa intendere che di lei si può fidare. É su questo patto che si regge l’equilibrio emotivo di un lavoro che, anomalo melodramma ad altezza di ragazzino, lascia molta aria attorno ai personaggi e tempo per decidere come aderire al suo disegno.

Il film si regge su Victor, sui suoi viaggi tra casa e scuola, tra casa e campo di calcio e soprattutto, da un certo punto in poi, da casa al teatro dell’Opera di Montpellier dove colui che ha appena scoperto essere suo padre, il direttore d’orchestra Samuel Rovinski (Grégory Gadebois), sta provando la Sesta Sinfonia di Mahler. Il rapporto tra il ragazzo e l’uomo, dopo i passaggi obbligati della diffidenza e della misurazione monetaria degli affetti, prende una piega singolare, scandita dalla musica e la sua percezione.

Victor non ha nessuna cultura musicale e proprio per questo viene eletto da Samuel ad ascoltatore ideale: «Non c’è bisogno di conoscere la musica – gli dice pressappoco – basta pensare alle immagini che ti fa venire in mente, agli odori…». Una pedagogia tardiva impartita da un padre per troppo tempo assente diventa una preziosa guida interna al film. Attraverso il suo personaggio più antipatico, la regista suggerisce di usare tutti i sensi per assistere alla proiezione, e noi, sicuri dell’onestà dell’indicazione, facciamo come chiede Samuel e, nel momento in cui egli chiama Victor ad affiancarlo sul podio, chiudiamo gli occhi e lasciamo che Mahler entri dentro di noi e trovi uno spazio prima sconosciuto.

La musica cessa di essere un semplice elemento della storia e si trasforma nello strumento espressivo decisivo. Attraverso l’intensa e, almeno nei mezzi, ampiamente imprevista identificazione con il protagonista che essa veicola, il film gioca la partita più importante: nel momento in cui Victor inizia a prendere le misure su di sé e capisce di dover pilotare il suo destino, noi siamo con lui perché con lui abbiamo sperimentato una piccola epifania e stretto un’alleanza romanzesca solidissima. La tensione drammatica cui tende il finale è trattenuta e pudica, la disperazione iniziale è stemperata in un’orizzonte vitale che consente qualche speranza. La giusta conclusione di un racconto di formazione esemplare, lucido nelle sue articolazioni principali e, anche per questo, capace di emozioni durature.