Diogene Laerzio racconta che Aristotele fece raccogliere ai suoi allievi 158 costituzioni delle città della Grecia, e a quanto pare riservò per sé l’analisi e il commento della costituzione di Atene. Con questo, per quanto immodesto, modello in mente, ho vagliato la sterminata produzione di libri sulla pandemia, a un anno dall’inizio. Al momento ne ho schedati seicento, e di questi richiamerò sei titoli, due dei quali esulano dalla schedatura, ma li cito come consiglio di lettura durante il confinamento. L’arco delle diverse posizioni assunte va dal negazionismo (il virus non c’è) al minimalismo (c’è ma è poco più di un’influenza stagionale) al complottismo (è il frutto di una macchinazione decisionista) al benaltrismo (ci distrae da problemi ben più seri): tutte queste posizioni si ritrovano compendiate in Giorgio Agamben, A che punto siamo? (Quodlibet 2020).

Attraverso moltissime posizioni intermedie e spesso ragionevolissime, si arriva all’accelerazionismo, i cui titoli esemplificativi potrebbero limitarsi a Scott Galloway, Post Corona (Penguin Books 2020) e Ferruccio Resta, Ripartire dalla conoscenza. Dalle aule svuotate dal virus alla nuova centralità dell’Università. Dialogo con Ferruccio de Bortoli (Bollati Boringhieri 2021), dove si legge l’interpretazione per la quale personalmente propendo: evento naturale, il virus ha accelerato processi tecnologici e sociali che in condizioni normali avrebbero richiesto anni o decenni, ed è su quei processi che conviene concentrare l’attenzione per far sì che lacrime e rabbia, tutt’altro che esaurite, non siano per giunta vane.

Potere di vita e di morte
Affinché l’accelerazionismo non si risolva in un generico, e come tale futile, ottimismo, occorre disegnare un quadro concettuale che passi attraverso la revisione critica di quello che, nella mia disamina da idiot savant della sterminata letteratura virosofica, si è rivelato lo storytelling prevalente, e cioè la pista biopolitica, il cui racconto, come sappiamo, suona pressappoco così. Il virus si presta a fornire l’occasione perfetta per instaurare uno stato di eccezione, che annulli le libertà imponendo, con il pretesto della salute pubblica, una tirannia biopolitica (fra i tantissimi titoli possibili, segnalo di Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, appena uscito da Einaudi). Fattualmente inaccurata, concettualmente inconsistente e politicamente reazionaria, questa interpretazione mi suggerisce le seguenti considerazioni.

Un potere che vieta gli assembramenti non vieta perciò stesso tutte le libertà, come si è letto, bensì una sola, del resto da decenni prevalentemente adoperata per scopi ricreativi e non politici, perché questi passano purtroppo soprattutto attraverso i social media. E se la biopolitica mira al controllo, e il liberismo al profitto, non è affatto chiaro in che modo si possano conciliare questi interessi contrapposti; tanto è vero che non si sono conciliati.
Sebbene occupi la letteratura filosofica da mezzo secolo, il concetto di biopolitica è troppo vago perché si possa sostenere che il potere moderno, diversamente da quello antico, è potere di vita anziché di morte. Dal punto di vista concettuale, avere potere di vita è identico ad avere potere di morte, dunque la biopolitica è al tempo stesso tanatopolitica; il monopolio legittimo della violenza come caratteristica dello stato moderno è, perciò, a tutti gli effetti, un potere biopolitico; se ci si volesse concedere, dopo tanto parlarne, di scherzarci un po’ su, si potrebbe osservare che espressioni come «la borsa o la vita» o la risposta di Brenno ai romani su cosa restasse loro dopo la spogliazione subita, ossia «la vita!» era una risposta biopolitica senza che Brenno avesse letto una riga di Foucault.

Per il resto, il governo passa oggi attraverso la scienza e la salute e i relativi profitti, così come in un tempo che non rimpiangiamo passava attraverso l’appello alla tradizione, alla religione, persino alla razza. Una scorsa ai Re taumaturghi di Marc Bloc (Einaudi 2016, l’originale è del 1924, due anni prima della nascita di Foucault) dimostra come, da sempre, sia pure in veste taumaturgica, il potere si sia giocato la carta biopolitica. Ma è il conservatorismo a costituire il limite maggiore della pista biopolitica. Sostenere che il potere oggi ricatta gli umani con la promessa della vita è, da una parte, enunciare una solida ovvietà, dall’altra imporre una insopportabile rassegnazione e un inaccettabile vittimismo. Il conservatorismo politico nasce da una scarsa immaginazione filosofica, che cede al cliché dell’umano come schiavo della tecnica, e dunque come vittima della biopolitica. Questo cliché omette di considerare che la subalternità rispetto alla tecnica è un escamotage giustificazionista avanzato, fra gli altri, da Albert Speer, il ministro degli armamenti di Hitler, a Norimberga (la Germania aveva un apparato tecnico tale da metterci tutti nella inderogabile condizione di eseguire gli ordini: il discorso è tradotto nelle sue Memorie del Terzo Reich, Mondadori 1995) e ripreso e divulgato filosoficamente da Heidegger.

Tassare le piattaforme
La distopia per cui un mondo tecnologico sarebbe un mondo in cui gli umani sono ridotti a macchine è una fiaba particolarmente ingenua. Se è vero che una tecnica primitiva non dipende esclusivamente dall’umano (un bastone può essere usato da un primate), e la sua sofisticazione – dall’aratro alla catena di montaggio – fa dell’umano una protesi della macchina, una tecnica pienamente sviluppata è interamente dipendente dalle nostre attitudini e dai nostri bisogni indotti, basti considerare come l’intelligenza artificiale non significhi niente al di fuori della condizione umana.

Più che l’oggetto di imposizioni e minacce da parte di un moloch nella sua raffigurazione mitologica di Potere, Palazzo, Capitale, la vita è prima di ogni altra cosa la ragion d’essere di ogni potere, di ogni palazzo e di ogni capitale, che non si darebbero senza la spinta delle nostre infinite e illogiche necessità le quali, archiviate nel web, producono una ricchezza e una fonte di speculazione spropositata, che va compresa nella sua genesi e concettualizzata nella sua struttura, soprattutto dopo che un anno passato sulle piattaforme l’ha resa così evidente.

Invece di limitarci a lamentele sull’arricchimento delle piattaforme, pensiamo a come tassarle: senza l’immane biosfera di cui siamo i membri non un centesimo verrebbe prodotto. Con una azione politica ragionevole, giusta e moderata, avremo ottenuto un progresso enorme (per esempio, sapremo come riqualificare e ridare speranza ai milioni che hanno perso il lavoro durante la pandemia). «Il sempre sospirar nulla rileva» è un verso (di Petrarca) vero e malinconico, mentre «L’armi, qua l’armi: io solo combatterò, procomberò sol io» è il leopardiano lamento per la patria che, per quanto accorato, suona anche un po’ spaccone.