La battaglia legale per il brevetto sulla biotecnologia Crispr ha ricevuto un’ampia attenzione da parte dei media scientifici. La vertenza aveva tutte le caratteristiche di uno scontro epico.
Da un lato, il ricercatore sino-americano Feng Zhang, giovanissimo prodigio del Broad Institute di Boston, joint venture dell’università di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology (Mit). Dall’altro, Jennifer Doudna e Emmanuelle Charpentier: statunitense l’una e francese l’altra, donne in un mondo dominato dagli uomini, spalleggiate dall’università di Berkeley, proprio a due passi dalla Silicon Valley.
Ha vinto Zhang, dunque il suo brevetto è legittimo: chi vorrà utilizzare Crispr per produrre farmaci o verdure Ogm usando le due proteine che tagliano il Dna nel punto desiderato e lo correggono, dovrà pagare i diritti a lui, al Broad Institute e alla Editas, la società creata appositamente dal Broad per gestire la commercializzazione delle scoperte di Zhang. Ma il brevetto sulla tecnica Crispr è davvero così importante, affinché in futuro l’invenzione si trasformi in benefici reali per la società?

In fondo, la tecnologia Crispr ha attirato rilevanti investimenti finanziari anche senza un padrone. Già da alcuni anni, il baricentro dell’industria biotech statunitense ha iniziato a spostarsi verso est. Le principali start-up nel settore oggi hanno sede a Cambridge, il quartiere universitario di Boston. Lì si stanno precipitando anche colossi come Bayer, Novartis, Dupont, Monsanto per stringere accordi commerciali e non perdere il treno di un’innovazione destinata a cambiare il volto della biotecnologia.

GLI INVESTIMENTI, a colpi di centinaia di milioni di dollari ciascuno, non riguardano solo la Editas di Zhang. Anche le aziende delle rivali Doudna (fondatrice della Caribou e della Intellia) e Charpentier (ai vertici della Crispr Therapeutics) sono corteggiatissime dall’industria farmaceutica, nonostante l’incertezza sulle sorti del brevetto.
Evidentemente, le competenze e il «know how» sviluppato in ambito accademico sono ritenute più importanti della proprietà intellettuale. Per attirare gli investimenti in ricerca e sviluppo, dunque, il brevetto per ora appare superfluo.
Caso mai, c’è il rischio opposto: troppi brevetti possono impedire ai ricercatori di utilizzare le invenzioni per realizzarne altre. Conciliare lo spirito di apertura della ricerca scientifica con i vincoli imposti dalla proprietà intellettuale è sempre più difficile. Che la battaglia per il brevetto del secolo non si svolga tra due imprese ma tra due università è un segnale allarmante, ma poco sorprendente. La spregiudicatezza delle imprese private, infatti, si sta diffondendo anche nei laboratori pubblici.
Nel 2007, undici università statunitensi (tra cui Harvard, Berkeley e il Mit) si erano impegnate formalmente a condividere con la comunità scientifica gli strumenti utili per la sperimentazione, come la tecnologia Crispr. Invece, le società esterne create dalle stesse università per gestire i brevetti Crispr stanno vanificando quell’impegno, siglando contratti di esclusiva in favore di industrie farmaceutiche che cancellano ogni concorrenza.

SECONDO DIVERSI osservatori, tra cui i giuristi Jorge Contreras dell’università dello Utah e Jacob Sherkow della New York Law School, il ricorso a società esterne permette alle università di aggirare le regole di trasparenza e collaborazione tra ricercatori. Come mostrano in un’analisi pubblicata sull’ultimo numero della rivista Science, questa strategia «ostacola la ricerca di terapie di grande impatto sociale, ma poco redditizie, soprattutto nel campo delle malattie rare».
Non a caso, il tema in questi giorni è anche al centro della 15/ma Conferenza internazionale sulla distrofia muscolare di Duchenne e Becker che si conclude oggi a Roma.
Infine, la sentenza ha paradossalmente complicato il quadro della proprietà intellettuale sulla tecnica Crispr. Mentre il brevetto concesso a Zhang riguarda l’applicazione della tecnologia in animali e piante, a Doudna e Charpentier verrà presto assegnato un altro brevetto di portata più generale sull’uso di Crispr in qualsiasi organismo.
Quindi, per utilizzarla a scopo commerciale sarà forse necessario pagare i diritti sia a Zhang che alle sue rivali. A quel punto, se i contendenti non vorranno imbarcarsi in una guerra di veti incrociati, dovranno ragionevolmente mettersi d’accordo. E la battaglia appena conclusa si sarà rivelata inutile.

GLI UNICI A FESTEGGIARE saranno gli studi legali ingaggiati per l’occasione: secondo il sito Stat news, la parcella degli avvocati ha già raggiunto la cifra astronomica di quindici milioni di dollari. Se Doudna e Charpentier ricorreranno presso la Corte d’appello federale com’è probabile, le spese legali diventeranno ancora più ingenti: fino a quando il gioco varrà la candela?
Il tentativo di recintare l’uso della tecnica Crispr sembra fallire anche sul piano bioetico. Alla fine del 2015, Doudna aveva promosso una conferenza internazionale a Washington per discutere dei possibili abusi della tecnologia Crispr. Se utilizzata sulle cellule germinali umane, infatti, la tecnica permetterebbe di curare malattie congenite ma anche di «ritoccare» gli embrioni a piacimento – una deriva eugenetica respinta dall’intera comunità scientifica, almeno all’epoca della conferenza. A conclusione dell’incontro, un gruppo di lavoro fu incaricato di redigere le conclusioni del dibattito in un rapporto finale.

IL COMPITO non deve essere stato facile, se ci è voluto più di un anno. L’evoluzione rapida del settore ha obbligato a qualche correzione di rotta. Il rapporto pubblicato il 14 febbraio in effetti non rispecchia il consenso espresso a Washington nel 2015. «Ogni passo verso la modifica genetica degli embrioni richiede cautela», scrive il rapporto, «ma cautela non significa proibizione».
Nelle conclusioni, l’uso di Crispr sulle cellule embrionali umane è infatti ritenuto legittimo, in assenza di valide alternative e solo per correggere geni chiaramente responsabili di malattie congenite gravi.
Il timore nei confronti del cosiddetto «turismo terapeutico», spiega il dietrofront parziale. In paesi privi di una normativa chiara, infatti, potrebbe nascere un traffico di embrioni geneticamente modificati fuori da un sistema di di sicurezza. «Siamo consapevoli che il turismo a scopo medico oggi è una realtà a livello globale. Un divieto assoluto avrebbe aggravato questo rischio», ha dichiarato alla rivista Nature Alta Charo, professoressa di bioetica all’università di Madison (Wisconsin) e una degli autori del documento.

DIVERSI SCIENZIATI hanno espresso dubbi sull’efficacia di questa decisione. Secondo il genetista George Church dell’università di Harvard, spesso è difficile distinguere la prevenzione delle malattie dalla ricerca del «miglioramento» della specie.
«Per esempio, la ricerca dimostra che il gene Grin2b è legato ai disturbi dello spettro autistico. Ma le mutazioni che aumentano l’attività del gene Grin2b sono anche correlate con maggiori capacità cognitive. Per prevenire l’autismo, si rischia di creare individui potenziati rispetto al resto della popolazione», spiega Church. «Ma è bene che se ne discuta ora, prima ancora che siano dimostrate la sicurezza e l’efficacia della tecnica Crispr. Dopo, vietarla sarà molto difficile».