Fondata a New York alla fine degli anni Ottanta per risvegliare l’attenzione del mondo sull’epidemia di Aids che stava uccidendo migliaia di persone, e rappresentata dal motto «silenzio uguale morte», l’organizzazione di attivisti Act Up ha presto iniziato la sua attività anche in Europa. E l’esperienza del suo «ramo» francese è raccontata da 120 battiti al minuto, il film di Robin Campillo in uscita il 5 ottobre che rappresenta la Francia nella corsa agli Oscar e vincitore del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes 2017.

Un film corale, su una collettività politica di giovani uomini e donne malati e non che si confrontano, immaginano insieme delle azioni con cui spronare le case farmaceutiche, e soprattutto con cui cambiare la percezione della malattia. «La nostra vittoria più importante è stata aver cambiato la prospettiva sull’Aids, che è diventato un tema politico e non solo sociale» spiega Campillo, lui stesso un attivista di Act Up negli anni Novanta.

Ma 120 battiti al minuto è anche la storia drammatica e intima di un amore fra due membri del gruppo: Nathan, negativo al virus, e Sean, malato di Aids che va incontro all’irreversibile decorso della malattia. Il film di Campillo si muove così tra ricordo personale e la ricostruzione storica di un’esperienza politica che ha cambiato per sempre il modo in cui il mondo vedeva l’Aids.

Ha detto che «120 battiti al minuto» è come un film di Marcel Proust su degli attivisti. Cosa significa?
Non era mia intenzione fare un documentario o un film storico: ho provato invece a riattraversare i miei ricordi di quel periodo e a metterli in prospettiva, per creare una sorta di edificio «della memoria». Per questo ho pensato a Proust, e anche perché volevo dare allo spettatore delle immagini «sensoriali», le sensazioni e perfino la sensualità di ciò che vivevamo tutti insieme a quei tempi. Un aspetto che per me è importante tanto quanto quello politico: anche la musica dance di quegli anni, le scene in discoteca, hanno una la stessa rilevanza di tutti gli altri elementi del film.

Lei è stato infatti un attivista di Act Up.
Sono entrato nel gruppo nel 1992, a dieci anni dall’inizio dell’epidemia di Aids. Dieci anni che ho passato paralizzato dalla paura. I giornali hanno cominciato a parlarne nell’82, io avevo appena compiuto vent’anni e in quanto omosessuale pensavo che il virus fosse una sorta di maledizione: tutti scrivevano infatti che le minoranze, come la comunità gay, erano destinate a morire in massa a causa della malattia. All’epoca non mi proiettavo neanche nel futuro, perché ero certo che sarei morto. Poi un giorno ho sentito parlare Didier Lestrade, il presidente di Act Up, e sono stato colpito dalla forza delle sue parole. Quando ho partecipato alla prima riunione è stato come iniziare a respirare di nuovo: tra le persone, anche quelle malate, c’era una gioia incredibile. Fare parte del gruppo, come per molti altri, ha cambiato la mia prospettiva su tutto.

Come mai ha fatto un film su questo argomento a quasi trent’anni di distanza?
Ho provato a lungo a scrivere una sceneggiatura sull’Aids, ma la malattia in sé non è un soggetto, per scrivere un film non basta un tema sociale: bisogna trovare un «cuore pulsante». Ma proprio perché l’argomento mi era così vicino non riuscivo a capire come affrontarlo. Poi un giorno, parlando con il co-produttore del film Hugues Charbonneau – anche lui ex militante di Act Up – mi ha assalito con violenza il ricordo di quando il suo fidanzato era morto di Aids, e io l’avevo vestito per il funerale. Ho subito capito che era questa la storia che dovevo raccontare.

Il film intreccia politica e tragedia individuale.
A quei tempi le nostre vite private erano strettamente connesse alla lotta politica, soprattutto perché i nostri amori erano considerati clandestini: avevamo solo noi stessi su cui fare affidamento. Volevo che la sala in cui i protagonisti si riuniscono rappresentasse in un certo senso il cervello del film: un posto vuoto, prevalentemente bianco, senza finestre. Al suo interno si esprime il potere politico della parola, della conversazione, del confronto. E poi ci sono altre «dimensioni spazio-temporali» come quella dell’azione, della discoteca, o dell’ospedale in cui viene ricoverato Sean. La sua intelligenza politica, la sua capacità «teatrale» di reinterpretare la realtà sono in grado di influenzare il modo in cui gli altri vedono le cose. Ma quando la malattia prende il sopravvento Sean perde la sua capacità di distanziarsi «teatralmente» da essa e per questo lascia il gruppo. Attraverso di lui si esprime l’impossibilità di vivere sempre la malattia come un fatto collettivo: c’è un momento in cui subentra la solitudine.

Quanto è cambiato oggi da allora per quanto riguarda l’attivismo politico?
Ho sempre pensato che l’arma politica più forte sia, sfortunatamente, l’indifferenza: uno strumento molto potente per distruggere la democrazia. Negli anni Ottanta e Novanta abbiamo provato a cambiare la società, il suo modo di vederci, abbiamo vinto delle battaglie come quella per il rimborso totale delle spese mediche per i sieropositivi. Poi sono arrivate le terapie, sempre più efficienti, e le persone hanno smesso di morire. Ma allo stesso tempo è tornato il silenzio, l’indifferenza. Macron per esempio è convinto che il problema dell’Aids appartenga al passato. Da poco c’è stato un meeting internazionale sull’Aids molto importante a Parigi, a cui hanno partecipato ricercatori e associazioni di tutto il mondo: Macron non si è neanche presentato. Oggi abbiamo la possibilità di sconfiggere questa epidemia per sempre: non possiamo smettere di combattere.