Marcello Cini, uno dei fondatori di questo giornale, sosteneva di essersi dedicato alla fisica dopo aver scoperto di essere «più interessato alle cose che alle persone». Era una mezza verità, smentita da un impegno politico durato un’esistenza. Del resto, come lui sono stati numerosi i fisici che hanno affiancato la militanza, quasi sempre a sinistra, alla ricerca teorica. La Guerra Fredda li aveva collocati in prima linea per le loro competenze su atomi e satelliti e molti di loro non avevano accettato passivamente questo ruolo, da una parte all’altra del Muro.

Con il crollo del socialismo reale, il ruolo strategico della Big Science è poi declinato. I mercati finanziari, più che le armi nucleari, hanno ridisegnano gli equilibri globali. A molti, prima che scoppiasse la bolla, la finanza è parsa uno strumento efficace di regolazione economica. Qualche economista di scuola keynesiana non era d’accordo, ma era tenuto ai margini e ammansito da riconoscimenti prestigiosi quanto innocui – molti premi Nobel recenti sono andati a economisti lontani dal mainstream.

Chi invece si trovò in trincea come ai bei tempi, e con idee radicalmente diverse da quelle dominanti, furono ancora loro, i fisici. Alla fine degli anni ’90, banche e fondi di investimento iniziarono ad assumere in massa giovani provenienti dai dipartimenti di fisica, privi di formazione economica ma abituati a simulare sistemi complessi al computer. L’interesse fu ricambiato: i mercati finanziari si erano ormai digitalizzati e fornivano milioni di dati in tempo reale: una palestra perfetta per applicare alla finanza i metodi matematici affinati nello studio di solidi, fluidi e gas. Così nacque una nuova scienza ibrida, l’«econofisica» i cui primi vent’anni sono ora raccontati da Mark Buchanan in Previsioni, tradotto da Irene Barbera per la casa editrice siciliana Malcor D’.

In questi due decenni i dogmi dell’economia neoclassica sono stati passati al setaccio dai fisici, prima ancora che fosse la crisi finanziaria a dichiararne il fallimento. Il primo pilastro a cadere è stato quello dell’«efficienza dei mercati». I modelli in uso tra gli economisti prevedono infatti che il prezzo delle merci e delle azioni si aggiusti istantaneamente al loro valore reale (l’utilità di un bene o il guadagno atteso da un titolo di borsa). Lo spazio per le speculazioni a breve termine, dunque, sarebbe residuale e le fluttuazioni degli indici di borsa dovrebbero risultare imprevedibili ma limitate.

Non è così: i crash sono molto più frequenti di quanto preveda la teoria, le borse non sono affatto imprevedibili e spazio per gli speculatori ce n’è, eccome. A partire da queste osservazioni empiriche, gran parte della ricerca degli econofisici si è concentrata intorno ai fattori che impediscono ai mercati di essere davvero efficienti. Primo fra tutti la «razionalità limitata» degli attori reali dei mercati (oggi sono spesso algoritmi informatici) che non sempre fanno la cosa giusta al momento giusto. Inoltre, checché ne dicano gli economisti, venditori e compratori non seguono strategie indipendenti ma spesso si imitano, lasciandosi contagiare da ondate di panico o di euforia ingiustificate.

Buchanan illustra i modelli e le teorie nate per spiegare i fenomeni apparentemente anomali della finanza globale e anche le soluzioni tecniche che potrebbero porvi rimedio, a partire dalla Tobin Tax: una piccola imposta sulle transazioni finanziarie che, se ben tarata, potrebbe frenare le impennate e i crolli dei mercati determinati dalle strategie puramente speculative.

Inoltre, come spiega Alessio Emanuele Biondo nella postfazione, Previsioni fa «i nomi e i cognomi» di chi ha sostenuto «la comoda visione equilibrista (magari avvolta da ammaliante formalismo, quantunque inutile)». Da Milton Friedman a Gary Becker, Buchanan evidenzia «le falle dell’impostazione miope delle scuole dominanti nel pensiero economico (…). Gli strumenti di analisi utili studiare gli individui, ignorando le proprietà emergenti della loro interazione, sono inadeguati a livello macroeconomico».

Nel suo riduzionismo la teoria economia dominante, quella neoclassica, ha tentato di imitare proprio la fisica, elaborando previsioni a partire da un «modello standard» semplice e apparentemente inattaccabile (quello della razionalità dell’homo oeconomicus). Era un tentativo tardivo, perché negli stessi anni la fisica invece ha scoperto le leggi statistiche che governano i sistemi complessi. Alla fine, i ruoli si sono invertiti del tutto. I mercati si sono trasformate in macchine fuori controllo. E a riportare un po’ di umanità nell’economia ci hanno pensato i fisici, gli specialisti delle «cose».