isis

La simbologia dell’Isis è indubbiamente forte, ributtante, capace di fare distogliere lo sguardo dal video che si ha di fronte, per la brutalità espressa, concepita esattamente per scatenare un doppio sentimento, come ogni dettame violento impone: il rifiuto o il fascino. La propaganda dell’Isis rappresenta simbolicamente un limite al quale la nostra idea di «umanità» si piega, si arrende, incapace di concepire tale sfoggio di violenza, abituati ormai alla guerra via drone, dove quanto accade è distante, e viene rappresentato come in un film, una fiction, qualcosa di completamente «altro» rispetto alla nostra vita quotidiana. Quelle delle «nostre» guerre sono immagini sbiadite, spesso mosse, e soprattutto con l’inquadratura imposta dal drone, da distante. C’è un distacco, c’è un messaggio chiaro: «tutto questo non riguarda te». Al contrario, le immagini di morte propagate dall’Isis, invece, avvicinano alle vittime e ai carnefici in modo diretto, grazie alle riprese ravvicinate, perfette nel loro montaggio desideroso proprio di porci di fronte ad un limite. Ci si può rifiutare di guardare, ma si sente ribollire nell’animo il sentimento del rifiuto categorico. Ma come ogni messaggio pubblicitario, l’effetto è anche contrario: immedesimare, affascinare, irretire.

Si è più volte sottolineata la capacità tecnica, la straordinaria bravura di chi realizza, monta e inscatola le produzioni delle esecuzioni o i video embedded dell’Isis. Si tratta di materiale ad uso e consumo degli occidentali: per spaventarci, ma soprattutto per reclutare. Si tratta di materiale concepito come le campagne pubblicitarie occidentali, per colpire l’immaginario proprio di quei ragazzi soffocati dalla società consumistica, di cui intravedono solo il sogno, relegati come sono nei meandri della alterità sociale, spesso completamente outsider. Il «target» è dunque chiaro, come ogni campagna pubblicitaria richiede. E i giovani arabi, o meno, abituati e martellati dai ritmi pubblicitari nostrani, sono perfettamente in grado di essere risucchiati dal fascino della produzioni hollywoodiane del materiale propagandistico del Califfato. I video dell’Isis non dicon solo: «guarda di cosa siamo capaci», dicono anche, «pensa cosa potresti fare con noi».

Il materiale prodotto dall’Isis, rappresenta «la forma ideale dello spot pubblicitario: sono monodirezionali, concepiti per non ricevere nessuna contro argomentazione e stabilire la propria opinione come unica verità possibile. Sarebbe il sogno segreto di tutte le marche poter comunicare così, imponendo e non proponendo il proprio prodotto. In un certo senso è l’ideologia capitalista che ritorna all’Occidente come un boomerang, brutalmente estremizzata, ma perfettamente riconoscibile». Lo scrive Bruno Ballardini – esperto di comunicazione strategica – in Isis, il marketing dell’apocalisse» (Baldini & Castoldi, 17 euro), il primo tentativo in Italia di non rimanere basiti o schifati di fronte alla produzione multimediale degli uomini del Califfato. In un certo senso, scrive Ballardini, «si potrebbe dire che quella dell’Isis sia l’applicazione del marketing religioso a fini di guerra».

Associare il marketing alla religione è cosa ormai acquisita a livello di studi accademici. È dalla fine degli anni Novanta che i sociologi delle religioni hanno teorizzato l’esistenza di una «economia religiosa».

È quello che Philip Kotler, il guru dei markettari di tutto il mondo, aveva chiamato «il marketing dell’anima». Del resto, sottolinea Ballardini, non dobbiamo cadere nel consueto «orientalismo». Non è che le tecniche pubblicitarie in alcune zone del mondo siano arrivate solo da poco, anzi. Certe «atmosfere», si respirano «da generazioni». Valgano come esempio due delle compagnie che hanno fatto scuola nel mondo, la Procter & Gamble e la Coca-Cola, presenti nel mondo arabo dalla fine degli anni Sessanta. «L’ingresso di multinazionali del largo consumo nei Paesi arabi, soprattutto quelle straniere che più rappresentano gli interessi americani, non è mai filato liscio del tutto. Ad esempio, Coca-Cola in Medio Oriente ha dovuto confrontarsi con il boicottaggio della Lega Araba dal 1968 al 1991». Non a caso, spiega il volume, lo slogan dell’Isis è «Baqiyah wa-Tatamaddad, Rimanere ed espandersi. Cioè restare vivi, non scomparire, sopravvivere all’Occidente, che invece è sicuramente destinato ad autodistruggersi «dopo aver corrotto il mondo».