Jack’s Ride fa parte della programmazione di Forum, la sezione in teoria più radicale e d’avanguardia della Berlinale. È il secondo film «di finzione» della regista portoghese Susana Nobre. Le prime inquadrature fanno pensare ad una versione portoghese del capolavoro di Carpenter, Essi vivono.

UN OPERAIO prende posto in un ufficio di collocamento. Chiede lavoro, descrive il suo passato, parla della crisi e dei licenziamenti… Nella finzione di Carpenter, una sgarbata impiegata rispondeva seccamente: «Non c’è nulla per lei, signor Nada». In Jack’s Ride è la regista stessa a sedere davanti all’eroe del proprio film, Joaquim o Jack – come, da emigrato, si faceva chiamare in America. Il suo suggerimento è più garbato, ma anche più paradossale. Joaquim è soli a tre mesi dalla pensione. Per certo, nessuno gli darà un lavoro. Ma deve comunque andare a far finta di cercarne uno, per ottenere preziosi timbri che gli daranno diritto al sussidio di disoccupazione, nei tre mesi che gli restano fino alla pensione. È questo il «ride» di Joaquim/Jack, una corsa senza senso, inutile e al tempo stesso giocosa, come un giro di giostra attraverso la quale la regista mette in scena una storia e una metafora. La storia è quella personale di Jack. La metafora è quella dell’economia novecentesca. Ed entrambi, Jack e l’economia novecentesca, si sono tanto affannati a produrre senza sosta per nulla, o per tornare al punto di partenza, né più ricchi né più poveri di prima.

LE PRIME inquadrature giocano anche sul fatto che Susana Nobre ha in effetti incontrato il vero Joaquim (che nel film interpreta se stesso) nell’ufficio di collocamento nel quale lei ha lavorato tra il 2007 e il 2011 – nell’ambito di un programma di ricollocamento ideato dal governo socialista per rispondere alla deindustrializzazione di certe aree del paese. Da quell’esperienza era nato il documentario Active Life, frutto di registrazioni fatte durante i veri colloqui di lavoro.

Jack’s Ride è una sorta di fioritura della finzione sul terreno di quel lavoro documentario. La sfida del film sta nel fatto di non cedere alla tendenza naturale di ogni finzione ad avere un intrigo, uno scopo o un fine narrativo che il film in ultima analisi risolve, ma al contrario di creare una finzione che si limita a girare in tondo. E questa sfida è tenuta con un certo rigore. Il film erra con fare picaresco, come e con il proprio personaggio, come se fosse un passeggero del taxi di questo moderno Sancho dalla chioma alla Elvis. E in quest’erranza appaiono degli elementi del passato, per lo più raccontati dalla voce dello stesso Joaquim. Voce che ha il calore, la semplicità, la bellezza dell’esperienza di prima mano. Mentre visita diverse imprese, sempre per ottenere i suoi timbri, gli tornano alla mente degli episodi dei suoi mille mestieri di migrante portoghese.
Perché quest’erranza non annoia ma al contrario seduce? Ad un primo giudizio potrebbe sembrare che la forza del film provenga dagli aneddoti che Jack racconta. È di certo vero, ma solo nel senso che il suo passato newyorkese gli viene riconsegnato nel confronto con la realtà portoghese di oggi.

È LA SOVRAPPOSIZIONE tra l’uno e l’altra che rende l’apparizione dei ricordi particolarmente convincente. Non per il fatto che ne venga prodotta una sintesi. Né Jack né la regista hanno una teoria da presentare allo spettatore. La corsa di Joaquim funziona piuttosto come una canzone di musica leggera, come una musica di fondo che suona all’autoradio, e che abbiamo senza dubbio sentito mille volte ma che, improvvisamente, acquista un senso nuovo perché nel frattempo guardiamo una scena, un paesaggio o una città scorrere dal finestrino… O un festival internazionale dal piccolo schermo del computer di casa.