Giorno dopo giorno, davanti alla crisi che stiamo vivendo, assistiamo attoniti alla messa in opera di contromisure del tutto conformi a quella stessa logica che l’ha provocata, in una continuità che esclude dal novero delle alternative qualsiasi elemento che a questa non sia assimilabile. Da qui il bisogno, inesauribile, di una critica del presente capace di problematizzare l’ovvio, ovvero quello che si configura come l’orizzonte globale insuperabile dal punto di vista cognitivo e pragmatico.
È ciò che si propone di fare l’ultimo lavoro di Giovanni Leghissa (Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis, Milano-Udine 2012) che muove ad analizzare la «condizione neoliberale» a partire dall’usuale impianto foucaultiano – segnalato anche dalla preferenza per l’uso del termine «neoliberalismo» a dispetto del più diffuso «neoliberismo» – ma con il felice innesto di un più ampio strumentario teorico proveniente dalla filosofia e dalle scienze umane.
Al centro, è quella trasformazione che porta a una sparizione del politico o, più precisamente, a uno slittamento e a un’occupazione progressiva di ambiti della vita tradizionalmente inerenti alla politica o all’etica (tenuti invece distinti dal pensiero liberale) da parte di un ordine definito «economico», che si offre come naturale e quindi non negoziabile. È in questa diffusione onnipervasiva in ogni sfera della vita attraverso una legge che incarna il principio superiore della razionalità economica, caratteristica della governamentalità neoliberale, che l’autore rinviene i tratti di un pericoloso «totalitarismo della teoria». Di fronte a cioè rivendicata la funzione critica delle scienze storico-sociali, capaci di mostrare la contingenza dei propri oggetti e di descriverne i processi genealogici, al fine di guadagnare nuovamente la possibilità di uno spazio per discutere i diversi modelli di razionalità sociale e definire gli scopi della vita associata, in riferimento ad un progetto di emancipazione.
Alla ricerca dell’utile
Leghissa si impegna nel mostrare quanto vi è di intrinsecamente politico nello stesso progetto neoliberale, caratterizzato da antropotecniche (la nozione è tratta da Peter Sloterdijk) assolutamente pervasive ed efficaci nel plasmare i soggetti e i legami sociali – compito per definizione sommamente politico. L’essere umano viene così ridotto a ciò che di esso può essere calcolato in vista dell’efficienza, a vita che produce e consuma, che può essere valorizzata quale fattore economicamente rilevante. Alla base di questo dispositivo è individuata la cosiddetta Teoria della scelta razionale, il cui successo viene ricondotto genealogicamente al clima culturale e politico che caratterizzò gli Stati Uniti al tempo della guerra fredda, con lo sviluppo di quell’insieme di studi che faceva riferimento al problema della giustificazione di un sistema sociale basato sull’economia di mercato. Tale teoria presuppone la comprensione e previsione dell’agire umano secondo il criterio di massimizzazione dell’utile, operando una vera e propria biologizzazione del comportamento orientato all’interesse individuale e guidato da un principio di efficienza.
La posta in gioco del neoliberalismo è dunque nel modo in cui si articolano i processi di soggettivazione, nella riduzione – funzionale al governo degli attori sociali – della razionalità economica a unica griglia di intellegibilità del comportamento umano. Ne deriva il presupposto teorico secondo cui il neoliberalismo non deve e non può essere letto come l’ideologia del capitalismo contemporaneo, nella convinzione che non possano essere esclusivamente le logiche di un sistema produttivo a determinare la struttura dell’intera società e che sia necessario concentrarsi sull’evoluzione delle tecniche di governamentalità. Con la necessità che queste comportano di un controllo sempre più accurato e pervasivo ma allo stesso tempo meno visibile e più indiretto – che è ciò che segna il passaggio a una vera e propria biopolitica.
Le élite del pianeta
Si tratta tuttavia di una tesi che, sebbene abbia il merito di sottoporre a sguardo critico alcune tradizionali acquisizioni ed equivalenze meriterebbe un ulteriore approfondimento e dibattito rispetto allo spazio dedicato nel volume. Il cui tratto più avvincente consiste nel vedere in azione la poliedrica cassetta degli attrezzi approntata a partire da autori e approcci disciplinari differenti, sviluppando, pur all’interno di una cornice familiare, una composizione originale e stimolante. Troviamo così numerosi esempi che, lungi dal configurarsi come facili stereotipi, mirano a identificare in determinate pratiche e discorsi le specifiche e creative declinazioni di un modello governamentale diffuso su scala globale; troviamo inoltre ricostruito il processo per cui una certa razionalità può giungere a predeterminare lo spazio di azione e di decisione di coloro che sono chiamati a compiere scelte politiche determinanti a livello locale e globale, una volta insediatasi nelle università e nelle nicchie culturali dove si formano le élite del pianeta.
Altrettanto stimolante è l’analisi delle imprese come principale matrice antropologica di questi processi di soggettivazione – già al centro, ad esempio, del «nuovo spirito del capitalismo». L’impresa è ormai diventata non solo la forma paradigmatica dell’organizzazione sociale, ma anche il luogo fondamentale della formazione dell’individuo, ove egli impara a farsi egli stesso impresa, a valorizzarsi e investire su di sé in quanto capitale umano, cioè a plasmare autonomamente la sua esistenza e a ricercare la sua autorealizzazione esclusivamente all’interno della cornice della razionalità economica. Una volta esplicitata la portata biopolitica delle pratiche aziendali, diventa dunque necessaria un’analisi critica dei nuclei fondamentali delle teorie delle organizzazioni e del management, in quanto discorso capace di inverare nel modo più sottile e pervasivo il pensiero neoliberale.
Ciò che caratterizza infatti questo regime biopolitico «è il fatto che la sussunzione di tutte le sfere di azione sotto la normatività dell’economico coesiste con pratiche di governo che favoriscono una condotta della vita mirante all’autorealizzazione individuale». Ed è qui che entra in gioco il desiderio: pur essendo ciò su cui agiscono maggiormente le antropotecniche neoliberali – plasmando soggetti consumatori e sottoposti alle retoriche dell’impresa – esso ne costituisce anche l’eccedenza, la risorsa inestinguibile per uscire dalla gabbia della razionalità economica.
In nome del godimento
È il desiderio della lezione lacaniana, segnato dal linguaggio e dall’insopprimibile presenza dell’altro, che se da una parte trova nel godimento un’espressione profondamente assimilabile nella dimensione dell’interesse, dall’altra rimanda inevitabilmente a una dimensione simbolica, al riconoscimento dell’altro e quindi alla possibilità di chiamare in causa un’aspirazione alla giustizia. È a partire dalla giustizia come oggetto di desiderio che diventa possibile vedere e pensare sia la violenza che la condizione neoliberale porta con sé, sia la sua onnipervasività che riduce tutto a puro calcolo economico, escludendo ogni spiegazione alternativa dell’azione umana; due aspetti che impongono di sottrarsi alle maglie di un pensiero totalizzante e pensarne l’eccedenza. Questo significa recuperare le risorse per creare nuovi discorsi, nuove pratiche, nuove soggettivazioni e traiettorie politiche – e quindi anche nuovi ordinamenti economici – che scaturiscano dal desiderio e dal conflitto creativo, derivante dalla pluralità di sfere di senso, individuali e sociali, che è possibile costruire e abitare.