Dopo il debutto alla fine della stagione scorsa, comincia ora la sua lunga tournée italiana Il nome della rosa (all’Argentina fino a domenica 4 febbraio) prodotto dal Teatro nazionale di Torino. Per una malaugurata coincidenza le immagini di questi giorni dell’incendio del tetto della Sacra di san Michele, riportano alle scene finali dello spettacolo teatrale nato dal romanzo di Umberto Eco, che proprio a quell’abbazia torinese disse di essersi ispirato. Qui quel libro mirabile del nostro grande intellettuale è stato trasposto per il palcoscenico da Stefano Massini, ormai specialista di queste operazioni, e ulteriormente adattato da Leo Muscato che ne firma la regia. È uno spettacolo sicuramente importante, di notevole impegno scenico grazie alle architetture imponenti eppure cangianti di Margherita Palli (costumi di Silvia Aymonino), e che si segue come un thriller.

Ma questo, oltre che punto di attrazione, segna forse anche il suo limite. Nel senso che era scontato che la riduzione teatrale di un testo come Il nome della rosa, pieno ad ogni frase di citazioni, echi, allusioni e fantasticherie, storiche e scientifiche, proprie di Umberto Eco, dovesse trovare un proprio filo narrativo da poter percorrere in due ore e mezzo circa. E lo scheletro portante era quasi obbligatoriamente l’indagine del saggio e avveduto Guglielmo da Baskerville sulla catena di morti misteriose di frati che si susseguono nell’antica abbazia medievale (del resto il suo stesso toponimo cita un famoso episodio di Sherlock Holmes). Ma tutto il resto del «bagaglio Eco», anche se presente, rischia di perdersi, svaporando tra i fumi e gli incensi, al contrario di quanto avviene leggendolo senza «forma» esteriore sulla pagina di un libro.

Il teatro in questo senso, risulta perdente anche rispetto al cinema: nel film di Annaud bastava un battito d’occhio di fra’ Sean Connery da Baskerville a spedire lo spettatore nell’iperuranio della fantasia e della memoria.Qui è sicuramente bravissimo Luca Lazzareschi a tenere alta la trama in quel ruolo, e non è da meno Luigi Diberti, unica vera invenzione teatrale, che scorrendo in proscenio al di qua dei sipari, conduce il racconto impersonando da vecchio (e sdoppiandolo in scena) il giovane monaco Adso da Melk, discepolo di Guglielmo e sua «spalla» nelle scoperte, nelle intuizioni e nei pericoli. Tutti gli altri interpreti si difendono onorevolmente, in quel frusciare di tonache, piviali ed effetti speciali. E come meritevolmente spesso avviene in questi casi, per larga parte del pubblico scatta di certo la curiosità, e l’occasione, per andarsi a leggere il testo originale di Eco, nel quale proverà il piacere di perdersi davvero.