Il termine «Rinascimento» è entrato nel lessico culturale italiano come calco sul francese Renaissance, coniato nel 1855 dallo storico francese Jules Michelet (e utilizzato a partire dal titolo del suo Rinascimento e Riforma. Storia di Francia nel Cinquecento) a qualificare il periodo della prima età moderna corrispondente grosso modo al XVI secolo (ma in parte già avviato nel secolo precedente) e in cui – dopo la parentesi di torpore e di barbarie del Medioevo – sarebbero rinate civiltà, cultura, arte antiche, animate da un soffio innovatore. Un concetto sviluppato con maggior coerenza cinque anni più tardi dallo storico svizzero Jacob Burckhardt, che nel suo La civiltà del Rinascimento in Italia tracciava una netta divisione fra l’epoca medievale, definita complessivamente come oscurantista, e il rinnovamento dei secoli appena successivi.
Si tratta di un paradigma che la storiografia del Novecento ha corretto in molte direzioni. L’idea di un Medioevo ancorato alla tradizione e di una Modernità rivoluzionaria è stato corretto alla luce del fatto che i secoli fra XII e XV sono stati densi di innovazioni, al punto che già nel 1927 lo storico americano Charles Haskins pubblicava un’opera intitolata significativamente (e polemicamente) Il Rinascimento del XII secolo. Nel Duecento l’incantesimo della sottomissione alle auctoritates era stato ormai rotto da tempo: nel suo De arte venandi cum avibus, l’imperatore Federico II aveva osato più volte contraddire lo stesso Magister per eccellenza, Aristotele, sostenendo che in natura le cose non andavano affatto com’egli aveva descritto e che ciò era verificabile alla luce dell’esperienza; un metodo, questo, sostenuto d’altronde dal francescano Ruggero Bacone, uno degli iniziatori di quella «rivoluzione» della quale Leonardo Da Vinci rappresenta il compimento, non l’iniziatore come Burckhardt aveva immaginato.
Anche l’individuo non nasce con il Rinascimento burckhardtiano, ma è il frutto di un lento passaggio da un’età maggiormente incentrata sul comunitarismo a una in cui, nelle narrazioni, trovano posto l’autobiografismo e una più articolata percezione di sé. Le personalità di rilievo, però, non sono mai mancate nella storia medievale. Per questo si salutano con piacere due libri che hanno diversi punti in comune: Donne Madonne Mercanti e Cavalieri. Sei storie medievali (Laterza, pp. 130., 14 euro) di Alessandro Barbero e Uomini e donne del Medioevo (Laterza, 2013, pp. 448., euro 35) di Jacques Le Goff, come già i titoli fanno capire, presentano alcune fra le personalità di spicco dell’epoca medievale. Il testo di Barbero lo fa prendendo le mosse dalle tipologie, come già aveva fatto anni addietro Georges Duby, per poi passare alle personalità (di donne: Caterina da Siena, Christine de Pizan, Giovanna d’Arco), mentre Le Goff compila una sorta di utile enciclopedia organizzata cronologicamente, che si conclude con una simpatica carrellata di figure imporanti benché mai esistite, come Artù o il Prete Gianni. Nonché la Vergine Maria, dal momento che il suo culto si è sviluppato solo dopo la diffusione del cristianesimo.
Non soltanto i secoli dopo il XII, però, possono contare su individui, uomini e donne, di rilievo. È di straordinario interesse, per esempio, la figura di Matilde di Canossa. Colei che recava sul suo sigillo l’umile motto «Mathilda, Dei gratia si quid est» («qualcosa, solo per grazia di Dio»), era in realtà la padrona di un impero che dal Tirreno toccava quasi l’Adriatico alla foce del Po e che dall’Umbria giungeva alla Lombardia. Nata nel 1046 dalle nozze tra Bonifacio, marchese di Toscana, e Beatrice di Lorena, in seguito alla morte dei tre fratelli Matilde era rimasta erede delle terre sulle quali suo padre aveva esercitato per delega il potere pubblico, cioè «feudale» (la marca di Toscana), nonché di una quantità di beni «allodiali» (cioè privati).
A ciò andavano aggiunti i vasti possedimenti lorenesi della madre. Spinta a sposarsi con un nobile transalpino, Goffredo V detto «il Gobbo», aveva però posto fine rapidamente al matrimonio. Così nel 1076, quando lo scontro tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV di Franconia era al suo culmine, Matilde aveva scelto di legarsi al primo e di combattere contro le forze imperiali, che sconfisse nel 1085 a Sorbaia presso Modena. Tentò, probabilmente su suggerimento dello stesso Gregorio VII, anche un nuovo matrimonio con Guelfo V, erede della corona ducale di Baviera e di venticinque anni più giovane di lei, ma l’unico erede della coppia morì ancora bambino. E quando Matilde si avvicinava alla morte, avvenuta il 24 luglio del 1115, essendo priva d’eredi decide di lasciare alla sede pontificia tutti i suoi beni, sia quelli feudali – che in quanto tali avrebbero dovuto tornare all’impero – sia quelli allodiali. Dimostrando che nell’XI secolo le capacità di una donna, al di là dei consueti cliché, non dovevano esser per forza legate alle sole funzioni generative.
Potrebbe sembrare un’eccezione, ma la lettura dei libri di Barbero e Le Goff suggerisce invece che queste eccezioni alla norma furono talmente tante da non poter essere considerate tali; e che l’età medievale è ancora in grado non solo di affascinare, ma anche di stupire per la sua ricchezza e la sua poliedricità.