Introducendo questa nuova edizione di Legalità e legittimità (Il Mulino, pp. 148, euro 15), Carlo Galli lo definisce un «testo cerniera»; un libro che è contemporaneamente tecnico, impegnato – politicamente impegnato, ma vale la pena sottolinearlo sin da subito, non ancora ascrivibile alla fase nazista di Carl Schmitt -, un libro profetico, che, all’orecchio di chi conosca la produzione degli anni successivi, suona anche come un alibi. Al centro del denso testo schmittiano, la valutazione della spaccatura che attraversa la costituzione di Weimar. Da un lato la nozione di legalità e cioè il riferimento alla pura forma di legge che chiude il circuito tra rappresentanza politica e monopolio della decisione. Dall’altro la «pienezza di valore» che, nella sua seconda parte, rende effettuale quello che Schmitt chiama il «plusvalore politico» della maggioranza parlamentare, nella piena e immediata esecutività ordinativa dell’azione amministrativa dello Stato con la sua incidenza materiale su interessi e processi economico-sociali. Ciò che rende legittima la decisione è l’energia politica che essa esprime come contenuto ordinativo nel processo della sua azione. L’evocazione, attraverso di essa, del «potere costituente» del popolo, che eccede la sua formalizzazione nel principio della maggioranza parlamentare.

SE NEL CONCETTO di legalità viene portato a compimento il progetto giuridico borghese – l’idea di una pura, irresistibile, razionalizzazione del comando che può pretendere incondizionata obbedienza perché quel comando altro non è che il ritorno su di sé, come legge garantita dalle procedure che ne governano la produzione dal punto di vista costituzionale, della volontà del popolo -, in quello di legittimità il riferimento va all’incontenibile eccedenza del sovrano, e cioè all’intervento, sempre possibile, della decisione concreta, che spezza l’illusione di neutralità della legge manifestandosi immediatamente nella premialità politica ascritta al principio di maggioranza dalla stessa democrazia.
Il «plusvalore politico» che in essa si esprime è di triplice natura, sottolinea Schmitt. In primo luogo, chi detenga il 51% dei voti può discrezionalmente interpretare i concetti di «sicurezza e ordine pubblico» («e trattare l’avversario politico-partitico che magari a quel punto bussa con gli stivali contro la porta chiusa», scrive Schmitt, «come un delinquente comune»); in seconda battuta il detentore del potere statale ha dalla sua parte la presunzione di legalità nei casi dubbi (quelli «politicamente difficili»); e infine può rendere immediatamente eseguibili le sue ordinanze, assegnando a uno strutturale «ritardo» l’eventuale intervento della magistratura ordinaria.

OTTO KIRCHHEIMER avrà modo di sottolineare come per Schmitt, di fatto, la democrazia abbia un senso solo presupponendo una società omogenea e come essa sveli la sua «falsità» di fondo solo se di essa non si accetta, cosa che Schmitt non è evidentemente disponibile a fare, un uso «strumentale» ai fini dell’unificazione politica di una società crescentemente eterogenea e conflittuale (di Kirchheimer si vedano i testi meritoriamente raccolti da Antonino Scalone in: O. Kirchheimer, Potere e conflitto. Saggi sulla costituzione di Weimar, Mucchi).
È lungo questa strada che Schmitt incrocia il problema della contingenza. Esonerata la pretesa di neutralità e di formalità della legge, la legge va assunta nel caso della democrazia parlamentare come espressione della mutevole maggioranza che la produce; in quello della democrazia diretta (comunque mediata da un’interpellazione che muove dall’alto) come volontà plebiscitaria. Se nel primo caso si apre una crepa nel funzionalismo legislativo di ideologia parlamentare, nel secondo, e in particolare nelle forme previste dalla stessa costituzione weimariana che riconosce iniziative legislative popolari (referendum), esso si spacca letteralmente in due. Gli elementi plebiscitari introdotti nella costituzione, pur non trasformando le procedure da essa previste, trasformano la qualità stessa del Parlamento, che diventa a sua volta «un pezzo del sistema plebiscitario». Il «popolo» entra cioè in primo piano come figura determinante di un sistema di legittimità del tutto differente dal sistema di legalità proprio allo Stato legislativo.

AL DUPLICE LEGISLATORE così riconosciuto – la maggioranza parlamentare; il popolo direttamente insediato come fonte di legge negli istituti di democrazia diretta – se ne aggiunge infine un terzo, nella figura del Presidente del Reich, cui l’art. 48 della Costituzione, pur apparentemente subordinandolo al Parlamento, riconosce il potere straordinario di sospensione dei diritti fondamentali in caso di necessità.
Tre figure della legislazione straordinaria, perciò, attraversano nell’interpretazione schmittiana la Costituzione di Weimar e inquinano la trasparenza che la distinzione tra legalità e legittimità intenderebbe realizzare: la maggioranza parlamentare in grado di piegare politicamente al proprio potere le minoranze che essa vuole escludere, riconoscendone la pericolosità, dal gioco democratico (gli stivali evocati sopra sono evidentemente quelli di Hitler, ma anche quelli, forse meno lucidi, delle organizzazioni comuniste e operaie); le iniziative plebiscitarie che installano pratiche di democrazia diretta; il potere dittatoriale del Presidente del Reich che, per difendere la costituzione, delle garanzie costituzionali può discrezionalmente sospendere la vigenza.

A UN POPOLO non più coglibile sotto le specie della «omogeneità» ed evidentemente pronto a scindersi secondo quel criterio del Politico che Schmitt trascrive in termini di inimicizia assoluta, corrisponde perciò il lacerarsi dell’ultima quinta teatrale all’ombra della quale si è costituito il sistema concettuale moderno e liberale: la finzione che garantisce al potere il monopolio della legalità in quanto espressione della volontà generale. Il lineare sovrapporsi di legalità e legittimità non si dà più nella fictio della democrazia rappresentiva e come misura del suo perfetto equilibrio. Piuttosto, nelle parole di Schmitt, «legalità e legittimità diventano strumenti tattici di cui ciascuno si serve secondo la convenienza del momento e che getta via quando si ritorcono contro di lui, e che tutti cercano continuamente di togliere di mano dagli altri». Come ha modo di sottolineare Carlo Galli, la grande acquisizione teorica di Schmitt in questo saggio è perciò che legalità e legittimità non sono grandezze immutabili o eterne come le procedure o i valori ai quali il positivismo giuridico ottocentesco li identifica.
Legalità e legittimità si articolano piuttosto l’una all’altra in ordinamenti storici puntuali che non solo si danno contingentemente, come effetto di sintesi sospinte da un’irriducibile, e primaria, energia politica, ma che tendono anche – e proprio per questo – a indeterminarsi nel loro valore concettuale esattamente nella misura in cui possono essere adoperate come un’arma nel quadro di battaglie che evidentemente eccedono il dispositivo di neutralizzazione del diritto. Il vecchio reazionario è come se qui entrasse in competizione diretta con Lukacs nella rottura del feticismo dell’ordinamento.

UN LIBRO TECNICO, profetico, ma anche un alibi, si sottolineava in apertura riprendendo le parole di Galli. Il lato tecnico è evidente: questo di Schmitt è un grande libro di teoria giuridica e costituzionale. Quello profetico, sta nella sua conclusione. La consapevolezza della spaccatura che divide in due la costituzione di Weimar obbliga, secondo Schmitt, a prendere partito per la seconda parte, quella in cui si affermano i poteri straordinari che possono essere adoperati ai fini di una sintesi autoritaria in grado di trasformare lo Stato superando la crisi che lo segna. «Se ciò riesce», egli può perciò scrivere, «l’idea di una costruzione costituzionale tedesca è salva». Ma in caso contrario, «le finzioni di un funzionalismo maggioritario, neutrale verso il valore e la verità, mostrano presto le corde. E la verità si vendica».
Il «grido di allarme» che nella Postfazione redatta per l’edizione del 1958 Carl Schmitt rivendica alla frase che conclude il testo, come in buona parte della spesso opportunistica riscrittura della propria biografia, diventa anche un alibi, appunto. La vendetta della verità è, in questo caso, l’ingresso di Hitler al governo in virtù di un puro principio di legalità parlamentare. Di lì a poco, sorprendendo non pochi tra i propri interlocutori, Schmitt aderirà al nazismo. Saranno di fatto i nazisti a realizzare alcune delle idee da lui esposte come possibili vie di uscita dalla crisi weimariana. Tra di esse, in particolare, un’economia di piano e una riorganizzazione totalitaria della società. L’argomento per mezzo del quale Schmitt avrebbe inteso salvare la costituzione da se stessa – e cioè la sottrazione di legalità e legittimità al quadro categoriale del formalismo giuridico per reinviarle all’efficacia concreta della decisione – risulta evidentemente esposto, lo sottolineerà di lì a poco Karl Löwith in un testo dall’esilio – a un rischio di occasionalismo. Quel rischio che Schmitt sceglierà di correre, pagandone, forse non del tutto a sufficienza, il prezzo.