Si passano di mano in mano i sudari. E piangono. Dentro ci sono i morti. Senza nome. Li escono a uno a uno dalle plance delle motovedette, li hanno recuperati in mare, a mezzo miglio dalla costa di Lampedusa, di fronte all’Isola dei Conigli, una delle spiagge più belle al mondo, dove ogni anno si schiudono le uova delle «carette carette» per prendere il mare, dove in questa drammatica giornata d’inizio ottobre galleggiano decide e decine di cadaveri. A tenere i sudari sono in due-tre persone: volontari, soccorritori, medici. C’è dolore, ci sono lacrime. I sacchi verdi, bianchi e neri vengono posati a uno a uno sul molo Favaloro, uno di fianco all’altro. Soffia un vento triste nel porto vecchio, che spezza un silenzio angosciante. «Una tragedia immane», singhiozza una donna, mani sul volto. Troppo brutto, ma è tutto reale. In uno dei sacchi, che poi saranno numerati, ci sono 4 bambini. C’è un neonato, appena tre mesi.
La madre forse è in uno degli altri sudari. Oppure ce l’ha fatta, magari è tra i 155 sopravvissuti. Poi si vedrà, più tardi. Uno dei soccorritori è attirato da uno dei sacchi. Lo apre. Dentro c’è una donna. Respira. L’avevano scambiata per morta e rinchiusa. Un miracolo, o forse no. La mettono in barella. Poi in elicottero, dove viene intubata e trasferita a Palermo, in ospedale: è una giovane eritrea di 25 anni, è disidratata, ha la polmonite. Sul molo della morte un operatore annota in un taccuino dei numeri: 1, 2, 3… 4. Sono i cadaveri. Arriverà a contarne 110. Ma saranno di più. Molti di più. Sotto il barcone, semi carbonizzato e affondato col suo carico di oltre 500 migranti, buona parte eritrei e somali, ci sono altri cadaveri. Sono incastrati. I sommozzatori si tuffano, poi risalgono in superficie. Sott’acqua la scena è terribile: come sopra, sulla terraferma. Stessa morte, stessi corpi, stesso cimitero. Anche qui c’è chi annota: 1, 2, 3… 4. «Orrore, orrore… è terribile», ripete Giusi Nicolini. Il sindaco di Lampedusa rimane per ore sul molo. E’ atterrita. Osserva la scena, e piange. Piange anche al telefono quando parla con i cronisti, col premier Letta o col Quirinale. Uno strazio infinito. «Vergogna… vergogna», twitta Papa Francesco. Un urlo di rabbia, chissà se squarcerà le coscienze di chi seduto nelle poltrone che contano poteva fare e non ha fatto. In Italia e in Europa. Perchè Lampedusa è un enorme cimitero. Lo è da 22 anni. Tutti lo sanno. Da sempre. Ma nulla è cambiato. L’isola è come immobile. Immobile il dolore. «Avevo vent’anni quando correvo con gli amici in banchina perchè arrivavano i migranti morti, adesso ne ho 40: e sono qui, non cambia nulla», sussurra Mario, ex pescatore. Dagli anni Novanta è una strage continua di innocenti. Ma a ogni tragedia è la solita storia: emergenza. E invece, qui, a Lampedusa, è tutto terribilmente normale, da più di vent’anni.
E’ venuto Berlusconi con la sua valigia piena di promesse non mantenute, hanno fatto la loro sfilata ministri, eurodeputati, parlamentari, rappresentanti dell’Onu, tedeschi, francesi. Nulla di nulla. Ma adesso va in scena la tragedia.
I telefoni degli hotel squillano in continuazione. Giornalisti, cameramen, fotografi telefonano da ogni parte del globo. Bbs, televisione svizzera, Cnn, Al Jazeera. Si cerca una camera, dove alloggiare. E’ tempo di documentare.
Arrivano le autorità. Il vice premier Alfano atterra nel primo pomeriggio. I sacchi colorati con i morti sono già in un capannone, 40×40, allestito nell’hangar dell’aeroporto. I comunicati stampa di solidarietà e cordoglio da parte dei politici sono centinaia. Fiumi e fiumi di parole.
Nel molo non c’è più spazio per i morti. Al cimitero neanche a parlarne.
«Raccapricciante, una scena che offende l’Occidente e l’Europa», commenta Alfano, appena esce dal capannone refrigerato con alcuni condizionatori per conservare più a lungo possibile i cadaveri prima di portarli a Porto Empedocle e poi seppellirli in giro per la Sicilia. Ogni sacco ha un numero. A uno a uno vengono aperti, la polizia fotografa i volti dei migranti, si prendono le impronte. «Tentiamo di identificarli», spiega un agente. Anche lui piange.
Barroso, Hahn… sono tante le voci di politici, uomini delle istituzioni a Roma, a Bruxelles, a Berlino che nel giorno del lutto predicano cambiamenti, si impegnano, promettono nuove politiche. Dentro i sacchi però ci sono i volti cadaverici di bambini, donne, uomini. Sono partiti dalla Libia, raccontano i sopravvissuti. Un viaggio di tre giorni. Sul barcone di poco più di una decina di metri c’erano ammassate oltre 500 persone. «Abbiamo incrociato due pescherecci, ma non si sono fermati per aiutarci», hanno riferito. «Nessuno di loro aveva il telefonino, non hanno potuto avvertire i soccorsi», ricostruisce il vice premier. Già, il telefonino. Quando dal barcone si è intravista la costa mentre era ancora buio, qualcuno a bordo ha dato fuoco a una coperta per cercare di attirare l’attenzione di qualche barca. A quel punto si sarebbe scatenato un incendio. Chi era vicino al rogo si è spostato d’un colpo dalla parte opposta, così la barca ha cominciato a imbarcare acqua. Ed è esploso il panico. I migranti sono caduti in mare. Pochi minuti, e quella porzione di mare s’è trasformata in una tavola di morti galleggianti. Un peschereccio si è diretto verso la zona vedendo le fiamme alte del barcone.
«Stavamo tornando da una battuta di pesca, con il binocolo abbiamo visto il fuoco salire da un barcone e ci siamo diretti lì», racconta Francesco Colapinto, 24 anni, che si trovava a bordo del peschereccio Angela C. insieme agli zii Domenico e Raffaele. «Abbiamo tirato su 18 persone vive e due morti. Poi abbiamo visto arrivare le motovedette». Degli oltre 500 migranti, solo 155 sono stati salvati, 110 i corpi recuperati fino a tarda sera, gli altri risultano dispersi ma le speranze di trovarli vivi sono nulle.