Long playing in vinile, uno studio che è anche sala d’ascolto, casse vecchie di decenni con «il mio corpo che si è completamente assuefatto alla loro vibrazione» ma – avverte Murakami Haruki, narratore giapponese tra i più amati e celebri della contemporaneità – «mi rendo conto che al mondo ci sono tanti modi migliori di ascoltare il jazz, ma io preferisco farlo così, rannicchiato come una talpa in questa confortevole tana».

Racconti e romanzi di Murakami (per anni gestore di jazz-club) sono disseminati di riferimenti jazzistici, segnali di una passione quintessenziale per la poetica dell’autore di Kafka sulla spiaggia e L’arte di correre. Il jazz è ingrediente e «categoria» narrativa al tempo stesso, come in Percorsi del caso (c’è di mezzo Tommy Flanagan) e A sud del confine, a ovest del sole (attraversato dall’ellingtoniana The Star-Crossed Lovers).

Murakami Haruki ha messo in primo piano la sua intimità sonora creativa con Ritratti in jazz (Einaudi, pp.233, euro 19,50, traduzione di Antonietta Pastore). Coautore è l’artista Wada Makoto ed il volume italiano raccoglie ritratti e testi già pubblicati nel 1997, 2001 e ‘04 (Portrait in Jazz). Il meccanismo è semplice: «prima Wada ha selezionato dei musicisti e ne ha fatto il ritratto, poi io vi ho aggiunto un testo» (Prefazione, p,4).

Per ognuno dei cinquantacinque jazzisti (da L.Armstrong a J.Coltrane) Murakami scrive al massimo due pagine, intervallate dai ritratti coloratissimi e un po’ naif di Makoto, completate da una succinta biografia e dalla foto del Lp di riferimento, proveniente dalla sua collezione. È evidente la mancanza di organicità storico-critica fin dalla disposizione non cronologica né stilistica dei doppi ritratti: diciannove i jazzisti bianchi, nove vocalist, un solo europeo (D. Reinhardt) ed un songwriter (H.Carmichael).

Eppure Murakami guida il lettore con maestria, leggerezza e profondità nel suo rapporto con la musica, la scrittura e i suoi temi. Vengono fuori i suoi gusti: «(…) in conclusione per me il romanzo è Scott Fitzgerald, e il jazz è Stan Getz» (pp.27-28). Trattando di B.Hackett e J.Teagarden parla della «bellezza unica» che nasce dalla loro unione e critica in due righe K. Jarrett. Commentando le incisioni di B.Beiderbecke afferma che «hanno la stessa sincerità, la stessa evidenza inamovibile della morte e delle tasse. In un’esecuzione di tre minuti c’è l’universo intero» (p.52).

Una chiave di lettura importante emerge nel ritratto di J.C.Adderley: «La musica veramente sublime (almeno per quanto mi riguarda) alla fin fine è un’incarnazione della morte. E a renderci sopportabile quella caduta verso le tenebre, nella maggior parte dei casi, è il veleno che possiamo estrarre da quel frutto malefico. La dolcezza che ci procura quel veleno è un intorpidimento, una forte alterazione che sconvolge la nostra percezione del tempo» (p.54). Si può definire meglio l’ebrezza di un assolo?
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