Il lettore più attento collegherà il nome di Robert Lebel alla prima monografia interamente dedicata a Marcel Duchamp nel 1959, peraltro mai tradotta in italiano. Segno, quest’ultimo, di una scarsa attenzione italiana riservata all’intellettuale parigino, il quale, al contrario, fu pensatore di primissimo livello per quanto riguarda le avanguardie artistiche e l’estetica francese del XX secolo. Critico d’arte, poeta, saggista, romanziere, fine conoscitore della pittura antica e collezionista: Lebel fu tutto questo e molto altro ancora. Infatti, oltre all’intensa produzione accademica e letteraria, ebbe l’occasione di frequentare e stringere amicizie con alcune delle personalità più importanti del panorama artistico del Novecento. Su tutti, Breton, Max Ernst, Isabelle e Patrick Waldberg, Desnos e lo stesso Duchamp. In particolare, fu la sua assidua frequentazione dell’ambiente surrealista a renderlo testimone d’eccezione di una stagione fondamentale per la storia dell’arte contemporanea. Una frequentazione che permette di osservare il Surrealismo da un punto prospettico privilegiato.
Tutto parte da André Breton. E non si può nascondere un certo imbarazzo di fronte a quello che può essere descritto come il padre-padrone dell’intero movimento. Nell’analizzare storicamente il Surrealismo, infatti, una delle maggiori difficoltà risiede proprio nel controverso rapporto che legò insieme l’autore del celebre Manifesto del Surrealismo del 1924 con i massimi esponenti di quella scuola. Perché se da una parte Breton pose solide basi teoriche ed estetiche per la costruzione dell’edificio surrealista, dall’altra lo stesso edificio fu scosso in più occasioni dai «capricci relazionali» del pensatore francese, che ora promuoveva opere e artisti a massimi esponenti della sua dottrina ora disfaceva il tessuto programmatico del movimento, espellendo gli stessi in nome di fratture più di tipo personale che teorico-sistematiche.
Fortunatamente, qui vengono in supporto gli scritti di Lebel. Una testimonianza che adesso si rende ancora più accessibile agli italofoni grazie alla pubblicazione del volume Il Surrealismo come tergicristallo Scritti critici 1943-1984 (Johan & Levi, pp. 240, € 25,00), che in virtù del lavoro svolto dal curatore del testo Jérôme Duwa raccoglie un cospicuo numero di saggi, articoli e interviste di Lebel. Una raccolta che ci permette di osservare dall’interno e con lucida imparzialità i movimenti e i rapporti che contribuirono al formarsi del pensiero surrealista. Difatti Lebel conobbe personalmente Breton, partecipò agli incontri dei surrealisti, scambiò con loro impressioni, lettere, opinioni. Fu insomma un membro attivo del movimento, tuttavia sempre conservando quel distacco necessario per poterne criticare incongruenze, debolezze, falsi miti. Come ci tiene a precisare Duwa, Lebel «non ha mai abbracciato quella che lui stesso chiama “la fede surrealista”. Certo, il Surrealismo non è una religione, eppure si aspetta dai suoi adepti un’adesione totale: nel Manifesto del 1924, Breton stila l’elenco degli amici che hanno fatto, stando alle sue parole, “atto di Surrealismo assoluto”. È di questo, verosimilmente, che Lebel si dichiara incapace». Ed è proprio questo parziale scetticismo nei confronti del legame fra Breton e i suoi «adepti» che consente a Lebel di organizzare un racconto del Surrealismo lucido e trasparente, ancorché appassionato e ricco di entusiasmo.
Un racconto che ne Il Surrealismo come tergicristallo è stato organizzato in quattro sezioni: «L’esilio e l’occultamento», «La messa a distanza: humour e dissacrazione», «Faccia a faccia» e «Decifrare l’ignoto». La prima si riferisce agli anni della Seconda guerra mondiale, quando i surrealisti si ritrovano in America esiliati: è qui che nel 1942 Lebel conosce personalmente Breton. Sono anni difficili, appunto di «occultamento», in cui il Surrealismo fatica a trovare il proprio spazio in una terra, quella statunitense, che ancora guarda con diffidenza a qualsiasi iniziativa intellettuale che voglia rompere con la tradizione in nome di una radicale libertà espressiva, basata sulle pulsioni più primitive e anticonformiste. Scrive Lebel: «in un ambiente in cui l’importanza di un artista veniva misurata soprattutto dall’ampiezza del suo successo commerciale, il visibile disagio in cui si trovarono Max Ernst e i pittori più noti del gruppo assunse ben presto valore di esempio. Fu così che i surrealisti riuscirono a influenzare una nuova generazione di pittori americani, prima di trasmettere loro le tecniche dell’automatismo che li avrebbero liberati dalle costrizioni locali». Detto altrimenti, si deve al «periodo americano» del Surrealismo quell’ondata di anarchia pittorico-estetica che da lì a poco avrebbe promosso il successo dei vari Rothko, Pollock, De Kooning.
Proseguendo nel volume, nei capitoli della sezione «La messa a distanza: humour e dissacrazione», Lebel descrive quella che, a suo parere, costituisce una delle cifre più proprie del Surrealismo. Si tratta, appunto, della volontà di tenere a distanza il mondo, di sfuggire continuamente alle sue regole, alle sue consuetudini, ai suoi giudizi. Attraverso dispositivi umoristici e sarcastici, uno dei più grandi meriti surrealisti sarebbe stato quello di opporsi strenuamente alla dittatura delle maggioranze e delle omologazioni, siano esse di carattere sociale, intellettuale o di costume. Un inno al valore dell’irrazionale, dell’utopico e dell’onirico; di tutto ciò che sfugge alle logiche razionali del pensiero e del vivere comunitario. Così, è sempre in America che «il Surrealismo sembrò allora assentarsi dal proprio tempo per immergersi nell’esoterismo e nell’utopia». In questi termini, dunque, i surrealisti contribuirono a definire alcuni pilastri non solo dell’arte, ma dell’intera cultura occidentale del secondo Novecento, in primis il pensiero che porterà da ultimo ai moti del ’68.
Infine, con le ultime due sezioni, lo sguardo si sposta sulle singole personalità che segnarono l’esperienza di Lebel all’interno del movimento surrealista. Breton, Duchamp, Ernst, Isabelle Waldberg, Duprey, Tanguy: da un punto di vista affettivo o più squisitamente intellettuale, sono queste le figure che segnarono maggiormente Lebel e i suoi rapporti con l’arte d’avanguardia. Ed è soprattutto dalle testimonianze di questi incontri, apparse su riviste e articoli accademici, che emerge quel «tergicristallo» che completa il titolo del volume. Più che un sostantivo oggettuale, si potrebbe dire che il termine indichi un movimento, un’attitudine, un modo di relazionarsi con il mondo e il pensiero. Sia il Surrealismo sia Lebel sono dei tergicristalli in quanto mai fermi su una posizione intellettuale specifica, anzi sempre animati dal desiderio di mettere in discussione ciò che già è stato esperito ed espresso. È in questa luce che possiamo forse scorgere il nucleo autenticamente surrealista dell’arte e dell’estetica di certa parte del Novecento. Nella propensione continua e incessante a sporgersi verso l’alterità, a disintegrare quanto è stato già costruito e a inaugurare così nuovi modi di esprimersi e di pensare.
Non a caso, l’ultima sezione della raccolta si intitola «Decifrare l’ignoto». Quasi un micromanifesto programmatico, con il quale Lebel sottolinea l’aspetto che più lo ha affascinato del Surrealismo: il coraggio di guardare oltre la propria identità, per intraprendere con audacia un viaggio verso le infinite modalità attraverso cui ogni individuo cerca di trovare un senso alla propria vita e a quella degli altri.