Sebbene Julian Barnes abbia più volte sottolineato le differenze tra i suoi romanzi, è innegabile che, a parte poche parentesi – una di queste dedicata a ricostruire la vita di Dmitrij Shostakovich in Il rumore del tempo, un’altra a rielaborare i ricordi della moglie perduta in Livelli di vita – ad alcuni caratteri, situazioni, atmosfere si è dimostrato particolarmente affezionato. Il suo successo fu curiosamente legato a un libro che sembrava rivolto esclusivamente a chi è di casa nella letteratura, Il pappagallo di Flaubert, poi lo scrittore inglese si immerse in cornici e dialoghi decisamente intimisti, da Parliamone a Amore. Dieci anni dopo, e non a caso popolò le sue pagine di giovanotti che, con una certa baldanza, ostentavano quale loro unica preoccupazione che la vita si rivelasse meno interessante della letteratura.

Nella trappola dei ricordi
Più o meno tutte queste predilezioni si affidavano a scelte stilistiche estremamente sofisticate, ciò che costituiva uno tra i fattori di godimento più ricorrenti nelle pagine di Barnes. Anche in quello che resta il suo libro migliore, Il senso di una fine, i rimandi letterari erano presenti fin dal titolo, che evoca una serie di lezioni sulla teoria del romanzo di Frank Kermode. E i liceali ai quali Barnes aveva affidato la scena erano tipi con cui si trova da sempre a suo agio: brillanti, disincantati, inclini a filosofeggiare, dichiaratamente meritocratici, corteggiavano la trasgressione come un obbligo intrinseco al fare artistico.
Nulla di tutto ciò riguarda Paul Roberts, protagonista dell’ultimo romanzo di Julian Barnes, L’unica storia (traduzione di Susanna Basso, Einaudi, pp. 241, euro 19,00) un uomo intrappolato nei suoi ricordi, che ricapitola la parabola della propria vita a partire da quanto gli accadde cinquant’anni prima, senza che qualche svolta intervenga a turbare la trama fatta, in buona sostanza, dell’esordio e poi della curva discendente del suo innamoramento.

Al tempo in cui tutto ebbe inizio, ovvero i primi anni sessanta, la voce narrante aveva diciannove anni, si faceva un vanto del suo qualunquismo politico, non possedeva talenti speciali, e si accontentava di seppellire nei suoi pensieri le poche scintille di ribellione indotte dal perbenismo dei genitori. Tornato a casa per le vacanze dal primo anno di università, si era iscritto a un circolo di tennis nel lussuoso sobborgo di Londra dove abitavano i suoi, e lì aveva incontrato una donna di quasi trent’anni più grande di lui, Susan Macleod, madre di due figlie avute da un marito dal quale dormiva separata da quasi vent’anni, una donna solare e attraente che poteva avere l’età della madre di Paul, ciò che alla madre di Paul risultava specialmente scandaloso.

Fin dalle prime righe si dà ragione del titolo del romanzo: siamo stati tutti protagonisti di molte storie, ma una sola conta, una sola merita di venire raccontata. D’ora in avanti la memoria del protagonista si sforzerà di ordinare l’arbitrio delle immagini che risalgono alla superficie dei pensieri, mentre ripercorre gli oltre dieci anni vissuti amorevolmente con Susan a Londra, poi il lento declino della relazione, la persistenza dell’amore di lui a fronte del tacito terrore di lei incanalato nella scappatoia dell’alcol, il progressivo scivolamento di Susan verso una lontananza autistica e la scoperta di Paul, legittimamente inesperto data la sua giovane età, circa la convivenza di emozioni in teoria incompatibili, amore e rabbia, empatia e risentimento, repulsione e attrazione.

Mentre Paul ripercorre la parabola della sua relazione, Julian Barnes cambia tre volte la strategia narrativa alla quale affida la ricostruzione dei ricordi: comincia in prima persona, e tutto l’incipit dettagliato è una chiamata in causa del lettore nella miglior tradizione dello scrittore inglese – «forse avete capito tutto un po’ troppo in fretta; come biasimarvi?»; poi l’uomo Paul si rivolge al ragazzo che è stato adottando la seconda persona – «Sei assolutista in materia d’amore, e perciò assolutamente contrario al matrimonio». E più tardi passerà alla terza: «Certe volte si faceva una domanda sulla vita. Quali sono più veri, i ricordi belli o quelli brutti?» come se l’adesione della voce narrante ormai adulta ai modi e alle parole del giovane che era richiedesse una regolazione della distanza di volta in volta misurata sulla complicità morale con quanto accadde, o almeno sulla alternanza di immedesimazione e condanna.

Infatti, alla scelta di entrare a capofitto in quella storia d’amore con una donna tanto più grande di lui, era subentrato un epilogo comprensibile e banale, ma con il quale Paul non aveva per molto tempo potuto conciliarsi. «Il tronco della memoria si spacca di traverso alla venatura»: l’osservazione che Julian Barnes mette in bocca al suo protagonista, per dire che la memoria si rifiuta di rievocare i momenti migliori quando è dominata dall’ansia, ricorda la nota di Freud circa la struttura dei «malati di mente», la cui personalità va in pezzi non a caso, bensì come un cristallo gettato a terra, che si spacca «secondo le sue lineee di sfaldatura».

Per Paul è il momento più difficile: sta assistendo alle prime bugie di Susan, che sembra dovergli nascondere tutte quelle esigenze pratiche implicate dalla sua condizione di madre e di ex moglie, vincoli che lui non ha fatto mai in tempo a sperimentare. E proprio in questa distanza, fatta non solo di anni ma di vita vissuta, sta la ragione di una inquietudine che Susan affiderà all’alcol e che le disferà via via la mente.

Registro abbassato
L’abilità di Barnes sta, in questo caso, nell’abbassare il livello della sofisticazione che gli è consueta per adattare la sua prosa alla natura moderatamente triviale dei personaggi: la voce narrante è quella di un uomo davvero qualunque, non soltanto privo di quelle ambizioni intellettuali che colonizzano abitualmente i pensieri dei protagonisti di Barnes, ma indifferente a qualsivoglia interesse, e malinconicamente avviato verso una vecchiaia che non è passata per alcuna pretesa di riscatto. Quanto a Susan, viene descritta da Paul come «una che vive senza la zavorra mentale di una teoria per tutto», il che dovrebbe suonare come un complimento.
L’unico personaggio a latere, quello della amica Joan, sembra l’icona della disillusione compressa in una serie di cliché: abbandonata da un amore che l’ha tradita, non si è più ripresa. Ovviamente vive con due cani, si compiace della sua trasandatezza, è forzatamente cinica, il suo lessico ospita il turpiloquio, fuma come una ciminiera, elargisce pacche sulla spalla, beve gin, fa le parole crociate e bara, il che – dice – non la porterà all’inferno, perché – ça va sans dire – lei all’inferno c’è già stata.

Ogni cosa è vera e falsa
Se per Barnes la scommessa era quella di ritrarre la medietà, scossa dall’ebbrezza di un amore sconveniente e subito riconsegnata al tran tran di vite qualunque, con corredo di amica eccentrica e buoni sentimenti riportati a miti consigli, ci è riuscito perfettamente. Ogni tanto sembra che tenti di riaccendere una delle scintille che di sicuro sono ancora in dotazione al suo brillante repertorio, ma gli si spegne tra le mani, e il tentativo torna indietro a chi legge come l’esito mal riuscito di una ricerca di frivolezza. Ma più che prigioniero di una coazione alla effervescenza, Barnes sembra qui rischiare di rendere la propria scrittura mimetica della medietà dei personaggi che ha scelto di mettere in campo, ammirevolmente implicati in una relazione di cui si rifiutano di misurare le coordinate, ma infine sopraffatti da una non necessaria precipitazione della vita, che Paul traduce in appunti di quaderno via via cancellati, perché poco resistenti alla prova dell’esperienza. Salvo uno, nel quale si direbbe che Barnes abbia particolarmente confidato: «In amore, ogni cosa è al tempo stesso vera e falsa; l’unico argomento al mondo sul quale è impossibile dire insesantezze».