«Devo tutto a François. Non soltanto mi ha trasmesso il suo amore per il cinema, ma mi ha fatto dono del più bel mestiere del mondo: mi ha reso attore». Jean-Pierre Léaud, l’Antoine Doinel dell’intensa saga cinematografica 1959-79 di François Truffaut (Les quatre cents coups, Antoine et Colette, Baisers volés, Domicile conjugale, L’amour en fuite), l’Alphonse di La nuit américaine (Oscar 1973), non ha mai rilasciato interviste, a parte un paio di volte, per botte-risposte coatte. Di slancio striminzito nella miriade di testimonianze raccolte dopo la morte del regista sui Cahiers du cinéma nel numero speciale del dicembre 1984 (Le roman de François Truffaut): «Oggi l’attore preferisce tacere per lasciar vivere e parlare sullo schermo i personaggi di Antoine e di Alphonse».

Dove non aveva potuto sottrarsi a un ultimo commiato: «Aggiungerò che François è l’uomo che amavo di più al mondo, come lui diceva del suo amico André Bazin. Mi manca. Ci manca». Proprio nell’84, prima di morire, Truffaut aveva dedicato al ‘suo’ attore, e suo doppio, una paginetta preziosa, apparsa in marzo-aprile su Studio 43, poi ripresa in Le plaisir des yeux (Flammarion, 1987) da Jean Narboni e Serge Toubiana. Dopo aver volteggiato tra « gli attori bressoniani, magri, dalle guance scavate e dalla capigliatura in battaglia, che per introversione s’esprimono come ventriloqui dolorosi», il regista ne fa i gemelli di Léaud «attore anti-documentario: anche quando dice buongiorno, vacilliamo nella fiction, per non dire nella science-fiction». «Comédien halluciné », lo battezza Truffaut: «Secerne plausibilità e verosimiglianza, ma il suo realismo è quello dei sogni ». Attore allucinato: dalla prima volta a oggi, 74 anni compiuti il 28 maggio, faccia sempre lunare, i capelli in eterna battaglia, lo sguardo afflosciato nella stanchezza, e nella melanconia. Dopo – e durante – Truffaut, ci sono stati molti Godard (1965-85, da Pierrot le fou a Détective), con supplemento d’assistente alla regia, Pasolini (Porcile), Bertolucci (Ultimo tango a Parigi), Eustache (La Maman et la Putain nel ‘73, altro rilancio di popolarità). Una successione di ruoli che han però offuscato, via via, il Léaud ‘di’ Truffaut, l’amato Doinel, in una progressiva estinzione d’io cinematografico: fino alla rinascita, nel ’90, larva ritrovata d’un Doinel invecchiato nel fisico ma non nello spirito ribelle, in Ho affittato un killer di Aki Kaurismaki e da qui, abbandonato ogni brandello di residuo identikit, la parabola postuma, raggrinzita d’un antico ragazzino del cinema, orfano di padre (Truffaut), orfano di sé stesso, senza più infanzia né giovinezza, regalate per sempre allo schermo dell’altro ieri. Ci saranno altre dilatazioni, altre nebbie – addirittura in Estremo Oriente con Tsai Ming-liang, altri due Kaurismaki (La vie de bohème, Le Havre) – d’un volto in fuga – Léaud en fuite? –, fino all’ultima resa, davanti allo specchiodi La mort de Louis XIV, il film di Albert Serra, che gli è valso nel 2016 la ‘Palme d’honneur’ a Cannes e nel 2017 il Prix Lumières per la migliore interpretazione maschile. In quell’occasione, un primo incontro, ribadito giorni fa alla consegna del Prix de la Presse all’Hôtel de Ville de Paris, con proiezione d’una storica videointervista di RadioCanada, il 4 giugno 1959, nel camerino di Cannes, subito dopo la proiezione trionfale di Les quatre cents coups, con Léaud quattordicenne che con esagerata, buffa disinvoltura infantile, risponde alle domande di Truffaut. Videointervista tuttora inedita in Europa (ora allegata al libro L’enfant sauvé, Mav), proiettata nel 2009 (a 25 anni dalla morte di Truffaut e a 50 da Les quatre cents coups) alla Milanesiana di Elisabetta Sgarbi e scoperta, nel 2004, al Festival du Court-Métrage a Clermont-Ferrand, all’interno di un bell’omaggio-Doinel a cura di Christian Guinot, con il doc allora appena sfornato Léaud de Hurle-dents, sulle battaglie dentarie del momento da cui pare non essersi ancora

rimesso.

Ripartiamo dal suo primo dentino cinematografico: l’esordio nel lungometraggio d’esordio di Truffaut. Che ricordo ne ha?

È un po’ come ricominciare l’intervista con la psicologa dei Quatre cents coups. Ero in collegio, avevo 13 anni e mezzo e ho letto su France-Soir che un giovane critico, François Truffaut, stava per dirigere un film e cercava un ragazzino. Avevo voglia di divenire attore. Puro istinto. E ho inviato un Photomaton. Nella foto avevo i capelli lunghi ma poi sono andato dal barbiere. Così, quando François mi ha chiamato, avevo i capelli corti. Ha chiesto: ‘Chi è questo qui?’. Non mi aveva riconosciuto. Poi, mi ha fatto tre provini e dopo il terzo mi ha dato la parte.

Aveva messo a rischio una carriera per un colpo di testa dal barbiere?

Ma, in fin dei conti, i capelli corti erano meglio: avevo un’aria più burbera. Una decina d’anni dopo, ho rivisto il provino decisivo per François. Una rivelazione: ho capito fino a che punto volevo in quel momento entrare nel cinema. Davvero, vi avevo messo in gioco la mia vita.

S’era reso subito conto dell’importanza e della bellezza delfilm ?

No, all’epoca, ero in un altro mondo. Il film, l’ho scoperto a 18 anni, a una proiezione di cine-club. Mi han chiesto d’intervenire e non ho potuto: ero troppo commosso. Ho provato un’ emozione simile davanti a Les deux anglaises et un continent. L’avevo girato con un sentimento schivo: e cinque mesi più tardi, sullo schermo, il film m’è apparso di colpo in tutta la sua bellezza e coerenza.

Come si è saldato il suo legame con Truffaut dopo Les quatre cents coups?

Sa, c’era la nostra passione comune per il cinema, per i Cahiers… François mi portava dove si poteva cogliere il cinema sul nascere. Per esempio, davanti ai rushes di À bout de souffle, mi diceva: ‘Guarda che stupenda carrellata’. O, a una proiezione di Touch of Evil di Orson Welles: ‘Guarda che meraviglia quel movimento di macchina’. E io guardavo, guardavo, guardavo i piani-sequenza, scoprivo Hitchcock, Hawks, Renoir, Becker… Insomma, son divenuto cinefilo, un affiliato degli amici dei Cahiers. È stato François, nel 1959, la sera del trionfo a Cannes, a annunciarmi: ‘Stasera ti presento l’uomo più intelligente del mondo’…

… Jean Cocteau?

No, Roberto Rossellini.

È Truffaut che le ha fatto conoscere Jean-Luc Godard…

…con cui ho lavorato per vent’anni! Da Une femme mariée a Alphaville… sono stato suo assistente, in diversi film. Aveva subito simpatizzato con me, il ragazzino dei Quatre cents coups. E quando ha deciso di realizzare quel che definiva ‘le plus petit film du monde’, Masculin-Féminin, mi ha dato il ruolo di protagonista: son passato di nuovo davanti alla cinepresa, come poi in Week-end, riprendendomi il mestiere d’attore.

Che significa essere assistente di Godard?

Imparare a diventare un genio

È qualcosa che s’impara? Come?

Guardando

Le storie del cinema dicono che Godard l’ha rubata a Truffaut.

È la storia del cinema. François e Jean-Luc non potevano essere agli antipodi: erano amici, appartenevano allo stesso ambiente, servivano gli stessi ‘credo’. Tra i due, è Godard l’idea incarnata del cinema

Attore-feticcio della Nouvelle Vague, lei è divenuto icona anche del ’68, al punto che Bertolucci l’ha voluta in «The Dreamers» I sognatori.

Non è colpa mia! Mi han caricato negli anni di responsabilità e simboli: attore della Nouvelle Vague, attore del ‘68… Dopo il suo film sul Maggio ’68, Jean-Henri Roger, collaboratore di Godard, ha annunciato al mondo che io rappresenterei quella generazione: ‘Godard ne incarna la radicalità estrema, ma Doinel è il nostro attore generazionale. Il corpo di Léaud è il 68!’.

Uscito nel ‘73, «La Maman et la Putain» di Eustache, di cui lei è feticcio e icona, non è, 5 anni dopo, un manifesto del ’68?

Sono cosciente di aver girato un film a parte: non come tutti gli altri. Già durante le riprese sentivamo che il film avrebbe attraversato gli anni, diventando altro dal tempo in cui era stato girato. E che energia! Un solo ciak, ogni volta: ‘buona la prima!’. Ma nessuna improvvisazione. Impossibile. Ricordo che mia mamma mi ha aiutato a imparare il testo a memoria. Ogni volta, una giubilazione. Perché davo sempre l’impressione d’improvvisare.

Che sensazione ha provato a entrare, dopo Truffaut, nel ‘cinema degli altri’, da Skolimovski a Rocha, a Rivette?

Sono attore, quando giro sono felice: è il gran mistero della gioia d’esprimersi davanti alla cinepresa.

Il più grande, tra i registi con cui ha lavorato?

Jacques Rivette, forse, che mi ha dato un solo film, nel ’71: Out 1: Noli me tangere. Per me, il più grande professore di cinema, equivalente sul set a quell’altro ‘professore’ che era stato come direttore dei Cahiers. Vedeva tutto nei film. Era il più intellettuale. Mi ricordo bene dei Cahiers du cinéma dov’ero sempre coccolato. Una frequentazione che spiega bene i film in cui ho lavorato.

Il più recente, «La mort de Louis XIV», pare la sepoltura del Doinel di Truffaut.

Apparentemente. Han detto che il regista ha fatto di me il mio contrario cinematografico, dato che in tutti i film precedenti mio punto di forza son le parole: seduco con le parole. Mentre Re Sole non parla, non può più parlare. Ma parla con gli occhi. E questa è un’intensità che ho imparato da François.

Lei è nato con «Les quatre cents coups»: ma, prima, chi era?

La mia vita è cominciata a Cannes 1959: sono nato a 14 anni, con la Nouvelle Vague. Prima? Ero un ragazzino turbolento, molto turbolento. Figlio d’un’attrice, Jacqueline Pierreux, e d’uno sceneggiatore, Pierre Léaud. Sono andato a scuola fino ai 14 anni e mezzo. Continuamente sospeso da tutte le scuole di Francia. Lo dico, nel provino di François. Dopo il film, mi hanno seguito insegnanti privati. Ma il vero insegnante, il primo di tutti gli insegnanti che ho avuto, è quello che conoscono tutti, François, che mi ha fatto cambiare scuole, famiglie e infine mi ha trovato un posto dove stare, indipendente, non lontano dal suo studio, a Parigi. Prima di François, prima della Nouvelle Vague, mia vita e mio cinema, avevo vissuto in prigione: in quella prigione che sono i collegi. Dove non smettevo di fare ‘il diavolo a quattro’: in francese, ‘les quatre cents coups’.

1 – continua. Le altre puntate (Brian De Palma e Robert Guédiguian) sono uscite il 23 giugno e il 21 luglio