Legittima la diffidenza. Da anni ormai il mito di Leatherface e di Non aprite quella porta è stato umiliato da una serie di sequel e reboot, senza contare inutili upgrade in 3D, che nulla hanno a che vedere con l’originale. L’unico vero sequel, ovviamente, è e resta il film del 1986 diretto da Tobe Hooper e prodotto dalla Cannon.

 

 

La notizia che Alexandre Bustillo e Julien Maury i due talentuosi francesi registi di À l’interieur, Livide e Aux Yeux des vivants si cimentassero con il lascito di Faccia di cuoio e famiglia lasciava sperare sia in una ripresa di creatività ed energia della materia che temere per le loro sorti, sacrificati sull’altare delle convenzioni. Le regole non scritte di Hollywood vogliono infatti che gli europei, per quanto validi, debbano passare sotto le forche caudine delle franchise più o meno esangui per stabilire se essi siano compatibili con il sistema, e di conseguenza i timori che Leatherface risultasse il solito stanco compromesso erano molto più che fondati. I due francesi dal canto loro abbracciano invece le origini di Leatherface e della nefasta famiglia Sawyer con un encomiabile entusiasmo da neofiti. Senza alcuna velleità autoriale si mettono a disposizione della materia con un rispetto e una competenza tale che non si possono non considerare il commiato più appropriato per il buon Tobe Hooper che figura nel ruolo di produttore esecutivo della pellicola.

 

 

Ottavo titolo  della saga e prequel del capostipite del 1974, il film è inscritto completamente nella rivolta politica e ormonale degli anni Cinquanta, polarizzati fra l’emergenza del rock’n’roll e la paranoia anticomunista, Leatherface ha in fati il coraggio di conferire una credibile antropologia a Faccia di cuoio. Prodotto endogeno sia dell’isolazionismo incestuoso delle classi rurali più arretrate e conservatrici che delle strategie della repressione sessuale dei giovani che iniziavano a essere sedotti da Elvis, Chuck Berry e Little Richard, Leatherface è la recalcitrante vittima di un manicomio per adolescenti disadattati che è facile considerare come un antesignano di quello di Qualcuno volò sul nido del cuculo. La maggior parte dei pazienti dell’istituto sono infatti ragazzi sottratti alle loro famiglie dallo sceriffo Hartmann (Stephen Dorff) impazzito a causa del dolore per la morte della famiglia uccisa dalla famiglia Sawyer. Jed (Sam Strike), ossessionato dal guardare le spalle al fratello demente Bud (Sam Coleman), stringe un’inattesa complicità con Lizzy (Vanessa Grasse) la nuova infermiera dell’istituto. Questa, incuriosita dai metodi brutali del direttore (Chris Adamson), si trova involontariamente al centro di una rivolta che termina con la fuga di Jed e Bud capitanata da Ike (James Bloor, visto di recente anche in Dunkirk) e Clarisse (la magnifica Jessica Madsen).

 

 

Proprio quest’ultima conferisce al film i suoi toni più neri e inquietanti. Segnata da una inesauribile voracità sessuale che si produce persino in uno sconcertante omaggio a Nekromantik, portatrice di ustioni tremende che le deturpano il corpo e il seno, uccide con un’esultanza nera che gela. I due registi, e l’attrice, sono infatti così abili da permettere che in un personaggio così negativo emerga, proprio nei momenti più crudi e violenti, una disperazione che inevitabilmente conduce lo spettatore a solidarizzare se non con i suoi atti almeno con le privazioni che l’hanno trasformata nel meccanismo coatto per uccidere che è diventata. In tutto questo Jed osserva in disparte e tenta di salvare Bud e Lizzy dalla furia distruttrice di Clarisse e Ike. L’intervento dello sceriffo Hartmann, però, segnerà definitivamente il destino di Jed.

 

 

Da autentici filologi della saga, Bustillo e Maury creano una premessa credibile e sentita a quello che senza dubbio l’horror più innovativo e radicale assieme a La notte dei morti viventi di Romero. Non risparmiano colpi bassi e bassissimi, mettono a durissima prova gli spettatori emofobi, ci vanno giù duri in fatto di gore e creano una vera e propria sensazione di malessere che resta appicciata allo sguardo anche quando si riaccendono le luci in sala. L’elemento più interessante del film è però l’aspetto giubilante della messinscena, la tangibile felicità dei due francesi chiamati a lasciare la loro impronta sulla e nella mitologia di Leatherface. Una riuscita su tutti i fronti, quindi, che rilancia sia le quotazioni della saga di Non aprite quella porta che quelle di Bustillo e Maury. Tobe Hooper, ne siamo convinti, sorride felice.