Visioni

«Lear» o delle politiche violente

«Lear» o delle politiche violenteRe Lear – foto di Sveva Bellucci

A teatro Nuovo allestimento per il testo di Edward Bond con Elio De Capitani nei panni del vecchio re. All'India fino al 9 aprile

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 1 aprile 2017

Testo complesso il Lear di Edward Bond, di nuovo in scena all’India (fino al 9 aprile), liberato da quella rigidezza meccanica che ne aveva compromesso la chiarezza nell’allestimento dello scorso anno. Merito forse della presenza di Elio De Capitani nei panni del vecchio re e del distacco assunto dalla regista Lisa Ferlazzo Natoli dalla mole di materiali raccolti intorno all’opera del drammaturgo inglese, da cui ne era scaturita anche la pubblicazione della traduzione inedita in Italia (di Tommaso Spinelli per minimun fax, con la cura della stessa regista e di Maddalena Parise). È inserito nel progetto «Confini» realizzato da lacasadargilla con lo Stabile romano, quest’indagine su un pensiero che fa del teatro – inteso come luogo di giustizia, in cui le azioni si sezionano, creando domande e ottenendo talvolta risposte – il centro propulsivo per un cambiamento, a partire dalla presa di coscienza sull’«essere umani», con le paure e tutta la conseguente violenza di cui siamo capaci.

Oggi ottantenne, Bond scrisse il suo Lear negli anni Sessanta (il primo allestimento del Royal Court di Londra è del 1971), convinto che le pagine shakespeariane contenessero le risposte sul nostro «essere umani» e inzuppato nell’assolutezza di Auschwitz e Hiroshima. Ma l’annichilimento di quel ragazzo del XX secolo, bombardato dall’età di cinque anni, rimbalza nel nostro quotidiano a svelarci le politiche violente che si riproducono attraverso mille diverse fisionomie nelle democrazie occidentali. Qui la natura brutale del potere prende la forma del muro, che il vecchio Lear si ostina a costruire per proteggere i suoi sudditi da ogni nemico, innescando la ribellione delle figlie, Bodice e Fontanelle, e la conseguente guerra all’interno della famiglia e fuori.

Una guerra diffusa e permanente, percepita in un crescendo ineluttabile e claustrofobico – così come si vorrebbe noi vivessimo dalla prima guerra del Golfo – con prigionieri, torture, morti. Compresi le figlie e, ovviamente, lo stesso re, aguzzino e vittima della sua stessa mostruosa invenzione.

Quasi centocinquanta minuti di spettacolo per otto attori che recitano la parte di oltre trenta personaggi, aggirandosi tra impalcature di ferro e sull’inesauribile tappeto sonoro di Alessandro Ferroni e Umberto Fiore. E creando uno spazio ideale di luoghi deputati, se non fossero inficiati da quelle poltroncine di velluto rosso che compromettono la visione di tutte le azioni più prossime. Ma col privilegio della prima fila si apprezza il lavoro attorale, ora alleggerito dal marionettistico grottesco del 2016, in favore di una sottile ironia, cavata fuori dalla durezza del testo.

Tutti bravi, dalle sadiche sorelle Alice Palazzi e Pilar Perez Aspa all’eclettico Francesco Villano, con Elio De Capitani sempre convincente nel suo ruolo di padre folle che, novello Edipo, rinsavisce e vede solo dopo l’accecamento. Quando ormai il testimone della violenza è passato in altre mani. È una catena di orrore senza fine quella che Bond ci consegna.

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