L’azione del Mossad contro l’impianto nucleare di Natanz è scattata mentre a Vienna erano in corso i negoziati sul nucleare. A Teheran è opinione diffusa che gli Stati uniti fingono di volere la pace, e lasciano invece ampio margine di manovra agli israeliani. Da questo clima di sfiducia e tensione traggono vantaggio i candidati conservatori nelle presidenziali iraniane del prossimo 18 giugno.

In realtà, nella Repubblica islamica il presidente è sì in carica ma non al potere, perché a decidere l’orientamento generale – e soprattutto questioni importanti come la politica estera e il nucleare – è il Rahbar. Comandante in capo delle forze armate regolari, dei pasdaran e delle milizie paramilitari basij, è il leader supremo a esercitare il potere in terra per conto del Mahdi, il messia atteso dagli sciiti.

L’ayatollah Ali Khamenei ricopre questo ruolo dalla morte dell’Imam Khomeini nel 1989. A eleggerlo era stata l’Assemblea degli Esperti composta da 88 ayatollah, che sarà incaricata anche della sua successione.

Classe 1939, domani 19 aprile l’ayatollah compirà 82 anni. Secondo i media ostili all’Iran soffrirebbe di tumore alla prostata e avrebbe problemi di cuore e respiratori. La sua morte è stata annunciata più volte dai nemici della Repubblica islamica, per poi essere smentita.

Quale piega prenderà l’Iran alla sua scomparsa dipende da chi gli succederà. Ed è qui che si sta consumando la vera lotta per il potere: con l’inflazione a due cifre e i prezzi alle stelle, il presidente moderato Rohani pare non avere possibilità; il nipote dell’Imam Khomeini ha un ottimo pedigree ma non ha largo seguito e, soprattutto, sembra fedele alle indicazioni del nonno che non voleva un suo coinvolgimento in politica; i fratelli Larijani hanno ricoperto diverse cariche, ma negli anni hanno perso smalto anche perché numerosi loro collaboratori sono coinvolti in scandali di corruzione; legato ai pasdaran, l’ultraconservatore Ebrahimi Raisi potrebbe avere qualche chance.

Se alla scomparsa di Khomeini l’ufficio del leader supremo contava un’ottantina di dipendenti, ora la struttura è così complessa da enumerare circa 4mila collaboratori incaricati di gestire centinaia di organizzazioni. A conoscerne bene gli ingranaggi è Mojtaba, uno dei quattro figli maschi dell’ayatollah Khamenei. Classe 1969, è il secondogenito del leader supremo. Non ha mai ricoperto un ruolo pubblico, si è sempre mosso nell’ombra ed è di fatto a capo dei servizi segreti e della propaganda attuata attraverso i media di stato e i sermoni del venerdì. Dopo il servizio militare, che in Iran dura due anni, nel 1990 Mojtaba intraprende gli studi teologici a Teheran per poi trasferirsi a Qum. Nella città santa è allievo di Mohammad Mesbah Yazdi, l’ayatollah morto all’inizio di quest’anno che propugnava una visione totalitaria della politica e auspicava l’abolizione del parlamento e della presidenza per accentrare i poteri nelle mani del Leader supremo.

Mesbah Yazdi era anche il mentore di Mahmoud Ahmadinejad. Non deve quindi sorprendere l’alleanza tra Mojtaba e l’ex presidente ultraconservatore: era stato il figlio a convincere il Rahbar affinché appoggiasse l’amico nelle elezioni del 2005; e fu lui a reprimere il movimento verde d’opposizione nelle presidenziali del 2009 con l’aiuto di Hossein Tayeb, a quel tempo al comando delle milizie basij e successivamente a capo dei servizi segreti dei pasdaran. Ahmadinejad e Mojtaba avevano collaborato anche nel contrabbando di petrolio, soggetto a embargo, e nel 2009 le autorità britanniche congelarono 1,6 miliardi di dollari su un conto inglese intestato al secondogenito del leader supremo.

Mojtaba è un uomo ricco, con le mani in pasta, e per questo non è amato dagli iraniani: nelle proteste del novembre 2019 girava lo slogan «Mojtaba bemiri, ke rahbari-ra nabini», ovvero «Mojtaba crepa, così non diventi leader supremo». A metà gennaio di quest’anno gli ultraconservatori hanno cercato di migliorare la sua immagine, distribuendo volantini con le foto di padre e figlio e lo slogan in arabo «Labaika, ya Mojtaba» laddove labaika è il termine usato durante il pellegrinaggio alla Mecca in segno di fede e devozione verso Dio. Quella frase si traduce con «Oh Mojtaba, noi ti seguiamo». L’iniziativa nelle strade di Teheran ha preoccupato il fronte riformatore, che ancora controlla la municipalità della capitale che è prontamente intervenuta, interrogando coloro che avevano distribuito i volantini: erano operai, a elargire loro qualche spicciolo erano stati i basij.

 

Mojtaba Khamenei a Qum nel 2019 (Ap)

 

Turbante nero dei Seyed, i discendenti del profeta Maometto, baffi neri e barba brizzolata. Ad accomunare Mojtaba al padre è la preparazione teologica non di altissimo livello. Il padre aveva studiato fino al medio rango di hojatolleslam («prova dell’Islam») e poi si era dedicato più alla politica che alla teologia, per essere promosso ad ayatollah («segno di Dio») e succedere all’Imam Khomeini. Il figlio si è laureato in teologia ma, impegnato dietro le quinte, non ha l’abilitazione per insegnare e non gode della stima degli ayatollah che siedono nell’Assemblea degli Esperti e saranno incaricati di scegliere il prossimo Rahbar. Il padre non lo nominerebbe suo erede, ma Mojtaba potrebbe tentare un colpo di mano con l’aiuto dei pasdaran. Resta da vedere se gli iraniani, che nel 1979 hanno messo fine a una monarchia millenaria, avranno voglia di subire una repubblica ereditaria come nella Siria degli Assad.