Segretario del Pd e candidato premier debbono coincidere. È un è un valore non negoziabile per Giorgio Tonini, già braccio destro di Veltroni. Un concetto che lui stesso spiega con dovizia di riferimenti storici nel libro L’Italia dei democratici scritto con Enrico Morando e recentemente assunto come una bibbia da Renzi, che pure in queste ore si dispone ad accettare che non sia un automatismo alle prossime elezioni politico. E invece, spiega Tonini, «è la regola sostanziale che vige nelle grandi democrazie europee. Chi è il primo ministro o, nel caso francese, il presidente della Repubblica? Il leader del principale partito. In Germania è sempre stato così da Adenauer a oggi. In Inghilterra e in Spagna lo stesso. In Francia c’è un velo di distinzione formale, ma il leader del Ps è Hollande, e il segretario Désir ha una funzione poco più che organizzativa. Come negli Stati uniti: il leader dei democratici è Obama, il segretario è il gestore della macchina organizzativa.
Per la Germania lei fa l’esempio della Cdu. Ma l’Spd, vostro partito fratello, alla cancelleria non candida il segretario Gabriel, ma Steinbrueck.

È una delle ragioni per cui non è molto competitivo. L’Spd ha vinto con Schröder, con Schmidt e con Brandt, leader e candidati cancellieri.

In Italia non ha mai funzionato così.

Se non in due casi, lontanissimi fra loro. Il primo è De Gasperi, fondatore della Dc, leader e il capo del governo per tutta la prima legislatura repubblicana. Non a caso perse le due ledership insieme dopo il voto del ’53. Poi ci sono stati Fanfani e De Mita, ma durò pochissimo. L’Italia è sempre stata governata con il metodo della tavola rotonda tra capicorrente e leader dei piccoli partiti alleati. Anche Spadolini e Craxi sono stati premier e segretari, ma di partiti minori. Bisogna arrivare a Berlusconi per trovare un premier anche segretario: è stato un vantaggio competitivo rispetto al centrosinistra fino al 2007. Il Pd è nato anche per dare un partito a Prodi, che era premier ma non leader e lo ha pagato in termini di stabilità. Poi c’è stato Veltroni, leader e candidato, e nelle condizioni disperate in cui eravamo nel 2008 ha prodotto un risultato positivo. Il Pd farebbe molto male a tornare allo schema della prima Repubblica.
Il Pd deve fare come Berlusconi?

Su questo sì, su questo è stato più europeo di noi.

Abolirebbe le primarie di coalizione?

La coalizione si fa intorno al partito più grande. Sono per una grande apertura a Sel, ma attorno al nostro programma e al nostro leader.

Però nel 2008 quel Pd non ha voluto l’alleanza con la sinistra.

Il centrosinistra usciva da una lacerazione profonda. Abbiamo fatto una minicoalizione con Di Pietro e i radicali ospitati nelle nostre liste. Dopo, però, Bersani ha indebolito la leadership del Pd e questo non è servito ad andar meglio. Anzi. Bisogna andare avanti sulla via degasperiana: selezionare un leader che possa essere credibilmente proposto come capo del governo. Guardi che De Gasperi è l’inventore delle coalizioni. Il punto è la loro stabiità. E l’unica cosa che dà la ragionevole certezza di una coalizione stabile è che ci sia una leadership chiara.

Nel 2013 la leadership c’era: quella di Bersani. Poi però il Pd ha scelto le larghe intese e ha rotto l’alleanza.
Le larghe intese sono state l’effetto della sconfitta. Quel Pd non aveva la vocazione maggioritaria, l’ambizione di conquistare elettori in un campo più vasto del suo elettorato tradizionale. Su questo punto Renzi ha perso le primarie. Gli è stato detto che avrebbe imbastardito il Pd e perso il voto di sinistra. Risultato: una parte dei nostri voti è andata a Grillo, e chi non ha votato Berlusconi non ha votato noi.

Renzi accetta accetterà che fra leadership e premiership non ci sia un automatismo. Sbaglia?

No. Credo che accetterà di rendere stabile la ’norma Bersani’ che ammetteva, alle primarie di coalizione, altri candidati del Pd. Una norma di flessibilità, ragionevole ai tempi di Bersani. Anche perché eravano a quattro anni dal congresso che lo aveva eletto.

Se Renzi diventasse segretario e premier, gli consiglierebbe di tenersi la guida di Palazzo Chigi e anche quella del Pd?

Una volta che ha vinto, si può eleggere un segretario del Pd sul modello dei socialisti francesi. Una figura che organizza il partito. Ma il premier resta il leader. Nessuno dice che Merkel non è il leader della Cdu, anche se qualcun altro si occupa del partito. È stravagante che ci sia chi si candida alla segreteria del Pd dicendo: ’io, sia chiaro, mi occuperò solo dei circoli e non del governo.

Parla di Cuperlo.

Parlo di tutti gli altri candidati, a parte Matteo, e soprattutto dei loro danti causa. A cominciare da D’Alema che ha proposto questo ragionamento paradossale: Renzi è adatto a governare l’Italia ma non a guidare il partito. Di solito nel più c’è il meno, a meno che non si pensi che il capo del partito sia più importante di quello del governo. Ma saremmo all’Unione sovietica, e non voglio pensare che D’Alema stia ancora in Unione sovietica. In un paese normale non si può dire ’candido al partito uno che non considero in grado di governare il paese’. Ma qui da noi siamo in un manicomio politico. Una persona normale che ci incontra per strada direbbe: voi camminate alla rovescia, vi ci vuole un Marx che vi rimetta sui piedi.