«Quando ti trovi nel momento di sospensione dalla tua abituale natura, che è determinata da ciò che stai guardando – può essere una statuetta greca oppure un’opera di Giuseppe Penone – l’arte aggiunge nuove visioni e vedute insospettate a quello che tu governi nella normale dimensione della vita; poi magari sfuma, evapora, diventa nuvola». Mi piace accostare a queste di Lea Vergine le parole spese da Francesco Algarotti a proposito di Paolo Veronese: «quello che ha Paolo sopra gli altri pittori è che ognuno vorrebbe entrare, per così dire, dentro a’ suoi quadri, potervi camminar dentro, vedervi quelle parti che rimangono nascoste all’occhio».

Entrare nell’opera, camminarvi dentro: non può equivalere ad un mero spostarsi dal ‘fuori’ dove ci troviamo e donde la osserviamo a un ‘dentro’ che ci appare percorribile in virtù di un inganno prospettico.

In una sua conversazione con Chiara Gatti («L’arte non è faccenda di persone perbene», presso Rizzoli) Lea Vergine rivendica, nel contatto con l’opera d’arte, «le gioie insolenti dell’intelligenza». Allora intelligenza questo entrar dentro: dunque capire, afferrare con la mente. Quel ‘dentro’ si mostra innanzi a noi come costrutto, come l’impianto realizzato dall’artista e dall’artista esibito – per quanto lo concerne, una volta che lo abbia licenziato – come compiuto. È che di un compiuto non si tratta. Di un dispositivo, piuttosto, si tratta se compiutezza qui, nell’opera d’arte, vale transitabilità. L’accesso e il transito in tanto sono agibili in quanto nulla in arte, propriamente, è finito, ultimato.

La concludenza dell’opera d’arte è affidata a chi vi entra in contatto ed è sempre una concludenza provvisoria, parziale. Ciascun osservatore, infatti, ciascun lettore e ascoltatore trae, in principio, conseguenze concludenti diverse da una medesima opera. È un concludere, un finire che – pari a quanto vien realizzando l’artista – apre l’opera a soluzioni ulteriori, a combinazioni fin’ora racchiuse, nascoste, ignote all’autore e che chiedono d’esser svelate e ragionate secondo costrutti non preveduti.

Concludenza starebbe a significare, dunque, uno speciale agire dentro l’opera, inteso a mostrare le sue connessioni nuove, a disporre altrimenti le sue coerenze compatibili, a intrecciare i suoi possibili raccordi. Svolgere così le sue premesse e disporle entro più ampie visuali. Sì che, arricchitone dall’interno il contesto, esse articolino composizioni inaspettate. Le “nuove visioni e vedute insospettate” richiamate da Lea Vergine che scrive: «si fa e si guarda l’arte in qualche modo affascinati da un enigma.

Resta un mistero il fatto che un individuo finisca per essere posseduto da una cosa intangibile e ineffabile come l’arte. Cosa c’è di più misterioso del fatto che una persona possa, di fronte a un quadro di segni astratti, sentire un’emozione quasi dolorosa? Che possa sentirsi stringere la gola o sentire un tuffo al petto? Cose che capitano quando ti trovi di fronte a un’opera che ti travolge, ti disorganizza. Sei colpito come da un terremoto, da un rivolgimento interiore, da una sorta di incantamento.

Qualcosa di arcano ti intrappola e ti dà una sensazione di superamento di quanto stai vivendo. Per un attimo, dovunque tu sia, non sei più tu, ma qualche cosa d’altro». Diciamo arte, ma si vorrebbe dire la ‘grande’ arte. E ancor meglio si dica: di singole opere d’arte qui si ragiona, tali da imporsi come non prescindibili: «arrivano quasi tutte dalla sofferenza», dice Lea Vergine; e ti costringono «a confrontarti con il tuo lato oscuro»; in esse trovi «qualcosa che ti dilanierà». Nel coinvolgimento con l’opera d’arte troviamo noi stessi per come «siamo fondamentalmente quanto ci manca». E aggiunge Lea Vergine: «in questo senso non mi sono mai sentita un critico, piuttosto una persona che scriveva di cose che non erano e che potevano essere».