Le zone grigie del jazz
Storie/Le trasposizioni, spesso ambigue, del genere, dai telefilm ai fumetti Il variegato valzer delle appropriazioni di uno stile musicale nell’ambito dello scontro ideologico est-ovest
Storie/Le trasposizioni, spesso ambigue, del genere, dai telefilm ai fumetti Il variegato valzer delle appropriazioni di uno stile musicale nell’ambito dello scontro ideologico est-ovest
I mezzi di comunicazione di massa, tra le altre cose, posseggono una qualità che è propria, ovverosia la tendenza naturale a sfruttare al massimo grado quelle creazioni che dimostrano di incontrare il favore del pubblico. Si tratta di un fenomeno che ricorre di frequente fin dal primo apparire della letteratura di genere, del fumetto, della radio, del cinema, della televisione e oggi di internet. Se una creazione, che abbia il carattere della serialità, appare poniamo nella forma di romanzo è naturale che si cerchi di replicarne il successo al cinema e poi magari in radiodrammi, in fumetti e così via. Non ha importanza in quale forma artistica abbia origine perché entri in una rete di trasposizioni da un linguaggio all’altro. Particolarmente diffusa è quella a fumetti per effetto della relativa semplicità dei suoi meccanismi produttivi e distributivi.
Durante gli anni Sessanta la società statunitense ha vissuto quella che è stata denominata la Golden Age della televisione. Nel volgere di un decennio dalle poche migliaia iniziali tutte le famiglie nordamericane possedevano un apparecchio televisivo. Le serie di telefilm irradiate dai piccoli schermi casalinghi plasmarono l’immaginario collettivo di una intera società sapendo cogliere il sentire comune e rilanciandolo, trasfigurato, in forme narrative sorprendenti, avvincenti e non di rado ricche di stratificazioni psicologiche e di critica sociale.
SIGLE ICONICHE
La presenza del jazz nelle colonne sonore dei telefilm è particolarmente ampia laddove questi sono d’azione sfruttando le sue peculiarità cinetiche a partire dalle sigle che devono immediatamente conferire una certa atmosfera fatta di tensione e di attesa. Illuminante è il caso delle avventure del detective privato Peter Gunn (1958-1961) la cui sigla si deve a Henry Mancini e che sarà ripresa magistralmente nel film The Blues Brothers (1980). Gunn è un amante del jazz tanto da stabilire il suo ufficio nel night club Mother’s. Una versione a fumetti ne è stata tratta dalla casa editrice Dell, poi Golden Key, che fu specializzata nella trasposizione a fumetti di celebri serie televisive e di cartoni animati (Dell Tv Mystery, numero 1087, aprile-giugno 1960).
Sfiorato per due volte il conflitto diretto con la guerra di Corea (1950-1953) e la crisi dei missili di Cuba (1962) Usa e Urss concentrarono i loro sforzi nell’ambito della geopolitica, della propaganda e dello spionaggio. Quest’ultimo, in definitiva, una forma di scontro seppur coperto dalla segretezza, si prestava bene a fornire personaggi e vicende per narrazioni avventurose e diede luogo a tutta una serie di personaggi. La serie televisiva I Spy (1965-1968) ha per protagonisti due agenti segreti, interpretati da Robert Culp e Bill Cosby, impegnati in missioni in ogni angolo del pianeta e ha generato una omonima serie di albi a fumetti. Nell’avventura Duet for Danger (I Spy, numero 4, febbraio 1968) i due eroi devono liberare il pianista jazz «Fingers» Felton rapito dai «rossi» a Praga, nel corso di uno dei tour che in quegli anni avevano il compito di stabilire buone relazioni culturali, per essere usato in uno scambio di prigionieri. Dopo averlo liberato il loro problema è come fare a riportarlo al di qua della cortina di ferro. Il pianista riuscirà a sfuggire alla sorveglianza comunista nascondendosi nel doppio fondo di un pianoforte. In questa storia il jazz diventa, letteralmente, il cavallo di Troia del capitalismo come denunciato dalla propaganda sovietica nel celebre slogan «oggi balla il jazz ma domani lascerà la Patria», rilanciato con granitica ottusità dalla rivista satirica Krokodil in una serie di vignette il cui obiettivo erano gli stilyagi, i giovani amanti del boogie-woogie, accusati di essere antipatriottici.
Nell’ambito dello scontro ideologico tra le due superpotenze il jazz ha assunto, di volta in volta a seconda delle convenienze politiche, il ruolo di musica della libertà (in funzione antisovietica) oppure di musica degli sfruttati (in funzione antiamericana). Altre volte ancora di musica in grado di affratellare e favorire il dialogo e la comprensione tra i popoli. Il riconoscimento del jazz nel novero delle creazioni autenticamente statunitensi e pertanto elemento fondante e riconoscibile dell’identità nazionale ha dato luogo a un suo uso strumentale però non ha potuto eliminare l’alterità di cui questa arte è portatrice. Il clima politico della Guerra Fredda ha profondamente influenzato non solo il dibattito pubblico ma è penetrato a fondo anche nella dimensione psicologica. In particolare gli statunitensi hanno a lungo convissuto con i traumi derivati dalla paura dell’olocausto atomico, dell’aggressione esterna, del nemico interno. Tutto questo in un momento di impetuoso sviluppo economico che ha terremotato certezze, consuetudini, stili di vita, legami familiari, ruoli di genere, rapporti generazionali e razziali. Questo complesso groviglio di tensioni e paure è stato rappresentato dalla serie televisiva fanta-horror The Twilight Zone (1959-1964) ideata dallo scrittore Rod Serling. Gli episodi della serie elaboravano con stupefacente creatività questi temi, con particolare riferimento alla questione del razzismo, e ancora oggi sono un esempio insuperato di critica sociale con il linguaggio del fantastico moderno.
DANSE MACABRE
L’episodio The Isle of the Dead (The Twilight Zone, numero 53, novembre 1973) nei fumetti tratti dalla serie racconta di due giornalisti che si fanno traghettare e lasciare su un’isola adibita a cimitero. I due sono alla ricerca dello scoop che li può fare diventare celebri e ricchi: registrare e fotografare i fantasmi che si dice si risveglino in quel luogo. A mezzanotte una parata di scheletri esce da una tomba monumentale danzando al suono di un clarinetto e di tamburi. Gli strumenti e l’abbigliamento, cilindro e bombette e il tipico ombrello parasole, ricorda esattamente l’iconografia delle street parade di New Orleans dove gli afroamericani in occasioni come il carnevale o i funerali inscenano cortei per le vie della città che si trasformano in balli scatenati al suono delle brass brand, le bande di strumenti a fiato e percussioni. I due malcapitati finiscono male. Trascinati in una folle danza dalle spaventose figure uno finirà per morire e l’altro impazzisce. Il sopravvissuto sarà ritrovato l’indomani mentre continua a ripetere con lo sguardo demente che «non c’è d’aver paura, vogliono solo ballare!». Questo fumetto ricalca, non sappiamo quanto consapevolmente, la storia, di vent’anni precedente, The Mad Mamba (Adventures into Weird Worlds, numero 25, gennaio 1954) dove era presente una danza a cui alcuni zombie costringono la malcapitata protagonista fino a farla impazzire. In questo caso si tratta di una danza voodoo i cui segreti la donna voleva carpire per fare carriera e liberarsi dalla subalternità della sua condizione di ballerina di fila. Curiosamente il disegno in copertina dell’albo trasforma gli zombie in scheletri e muta l’ambientazione da Haiti a una dimensione urbana. Gli scheletri sono ritratti come una jazz band mentre nel fumetto ballano al ritmo di una chitarra. Evidentemente il disegnatore Joe Maneely ha così voluto evocare una atmosfera e riferimenti più riconoscibili per il lettore.
Il jazz, in quanto espressione musicale di una minoranza vissuta come altra ed esterna rispetto alla società americana, ha sempre generato un misto di attrazione e repulsione. Come ha ben spiegato il critico e saggista inglese Mark Fisher (1968-2017) nelle sue riflessioni sul weird, ovverosia lo strano nelle produzioni culturali, esso si manifesta quando «l’esterno può irrompere all’interno di un’ambientazione fattualmente familiare». In queste storie a fumetti il grande rimosso della presenza afroamericana ritorna sotto forma di un corteo di scheletri danzanti. È una street parade che ha le fattezze delle danze macabre medievali e che sovverte l’ordine fittizio del sogno americano costituito dalla rassicurante e infallibile triade: impiego, carriera, ricchezza. Un sogno di illimitate possibilità di sviluppo e affermazione individuale che però si trasforma in un incubo. La cattiva coscienza WASP, acronimo che individua i caratteri della maggioranza bianca protestante, fa i conti con l’orrore sul quale il capitalismo ha costruito la sua potenza globale. Il ghigno del revenant che pretende di ballare con noi smaschera l’ipocrisia di una società che si ritrae come omogenea, pacificata ed egualitaria ma che deriva la sua opulenza dallo sfruttamento, dall’alienazione e dal razzismo sistemico. Il jazz ci ricorda che l’altro siamo noi. E che non gli possiamo sfuggire.
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