Passando in rassegna alcuni tra i film più interessanti degli ultimi anni – soprattutto dal punto di vista teorico, ma anche riguardo agli assunti, quindi unendo qualcosa come un fulgore estetico e la stratificazione etica, antropologica – ci si accorge che molti di questi rientrano nel genere horror, o lo lambiscono, lo attualizzano, spesso lo oltrepassano, varcando il concetto stesso di «genere».

SE SI PENSA a film come It Follows di David Robert Mitchell o l’Halloween diretto da David Gordon Green (inaspettatamente bello e comunque benedetto da Carpenter) fino a Midsommar di Ari Aster, per citare solo gli esempi più comuni, distribuiti anche in Italia e per giunta con un certo successo, si tende a sottolinearne un forte metaforismo, tutto un impianto di tropi, di trasfigurazione dei significati (e dei significanti: ecco allora l’esercizio teorico, sacrosanto), che sposta il discorso dal puro fantastico al tessuto sociale, politico, fino alla sfera psicologica più minuta, derelitta, devastata (un film come quello di Aster è perfettamente calzante con il calvario del Covid) ma senza eludere, anzi rafforzando, il racconto, la fantasticazione, la plasticazione stessa dell’orrore: la dimensione soprannaturale o para-naturale in cui i corpi, le figure si muovono, si sfanno, i lemuri, i demoni, i sangui, tutta una pasta pullulante nell’eremo del quadro.

In un film come Lúa Vermella di Lois Patiño affiora, dal passo sospeso della macchina da presa, tutto il metaforismo presagito dal regista galiziano, infatuato degli spazi, che allude al concetto stesso di paura, di angoscia posta tra storia e mito: il mostro serpeggia, sibila, è tutt’intorno come il serpente di Stig Dagerman riportato alla luce di recente da Iperborea. Eppure questa dimensione metaforica non cancella il letterale, il racconto del terrore: resiste lo stregonesco, il magico, ma incarnato alla terra desolata, liricamente sfolgorante di abbagli sanguinosi: un para-naturale che ricorda quello di Surbiles di Giovanni Columbu pur nella diversità della scrittura, della prospettiva, che nel film vampiresco sardo coincideva con una dimensione domestica, crepuscolare.

«LÚA VERMELLA» è tra i film proposti dal Monsters Film Festival di Taranto, curato da Massimo Causo e Davide Di Giorgio, giunto alla sua terza edizione (quest’anno ovviamente online, dal 19 al 21 marzo, al link www.monsterstarantohorror.stream), occasione per immergersi in un microcosmo fantastico che però non manca di riferirsi al contemporaneo o alla natura arcana, anche fortuita, del nostro essere e sperimentare zone di buio. La selezione è accuratissima (completandosi di conversazioni, presentazioni di libri, introduzioni critiche) e vanta un approfondimento sul giovane canadese Santiago Menghini (ospite in diretta streaming domenica pomeriggio), già abbastanza noto tra gli appassionati e i frequentatori dei festival, per essere passato tra l’altro dal Sundance e dal Torino Film Festival.

Tra i suoi corti visibili al Monsters c’è Regret che fa molta impressione per lo sfoggio di nerezza, anche nel senso dell’impressionarsi, dell’imprimersi della figura sulla pellicola (o meglio sulla memoria, e sulla memoria digitale): una pienezza e flagranza della presenza, dell’apparire in tutta la minaccia che una sagoma scura, muta può emanare standosene immobile nella penombra. Ma oltre a essere dissertazione sulla natura cinematografica, sull’orrore del meccanismo di apparizione, proliferazione d’ombre oblunghe o grumo canceroso venuto da chissà dove, forse da un qualche malato inconscio d’astri o di nebulosa, oppure di fungo atomico ruminante nel deserto; Regret è misurazione ed esasperazione dello spazio cinematografico, che alla fine consiste nella distanza tra chi guarda e il fenomeno, il mostro. È il suo ridurre le distanze dallo sguardo che lo scongiura, il suo avvicinarsi, anzi il riscoprirlo sempre più vicino eppure sempre più fermo in posa afona, come una figura di cartone in rilievo, come un Babadook che non si muove ma semplicemente compare ancora più vicino, tra un battito di ciglia e l’altro, tra un bruciore di sigaretta e l’altro. Che è lo stesso principio a epifania spinta che muove, cioè immobilizza, il terrore di Creswick di Natalie Erika James (in apertura del festival, stasera), il quale se ne sta zitto, a occhi spalancati nel suo buio e ci guarda, attonita inerte escrescenza che riempie di sé il quadro e ogni altra ipotesi di spazio.

TRA LUNGOMETRAGGI molto interessanti e uno spazio riservato agli italiani (Buio di Emanuela Rossi e Profondo di Giuliano Giacomelli) è ancora un cortometraggio a spiccare come la cosa più notevole del programma. The Boogeywoman di Erica Scogginis compie una variazione cronenberghiana, lasciva, sull’iniziazione sessuale che già era (ma nel segno dell’ammonimento) di It Follows fluendo nel senso del sangue mestruale, del battesimo di una dimensione ancestrale, uterina che, complice la notte e il livore della luce, ammalia, eccita, irretisce una volta di più.