Di fronte al ciclo di mobilitazioni che hanno accompagnato le primarie del Partito democratico negli Stati Uniti dovremmo porci due interrogativi.
Il primo riguarda il tipo di cambiamento che sta realizzandosi fra i democratici americani.

Il secondo interrogativo è se tale cambiamento possa significare qualcosa anche per altri attori progressisti che si muovono in altri contesti.
La vittoria di molte candidate giovani, su posizioni più radicali, a volte apertamente socialiste, come Alexandria Ocasio – Cortez a New York, dimostra che il consenso coagulato negli ultimi anni da Bernie Sanders non è fenomeno effimero.

Ha ricordato opportunamente Alessandro Maran sul Foglio dell’11 settembre la robusta affermazione di candidati democratici moderati nelle primarie dei «swing districts», in cui la contesa fra democratici e repubblicani sarà serrata e i seggi saranno assegnati con scarti ridotti di voto.

Anche nella prossima Camera la maggioranza dei deputati democratici dovrebbe essere centrista. Tuttavia, sarà importante verificare se i candidati (e le candidate) di formazione neo-socialista saranno presenti in numero sufficiente a introdurre nuova linfa nel dibattito politico, tematizzando con vigore le questioni relative al Welfare, al lavoro e all’inclusione sociale. Infatti, passa da questa via, anche negli States, la possibilità di allentare la tenaglia che sta stritolando la sinistra, i cui bracci sono composti, da un lato, dal globalismo neo-liberale e, dall’altro, dal nazionalismo.  Una contrapposizione, vale la pena di ricordarlo, funzionale ai disegni egemonici di Steve Bannon e dei suoi solerti epigoni anche europei.

Arnaldo Testi (sull’Espresso del 2 settembre) ha evidenziato come molti dei giovani e giovanissimi «neo-socialisti» che si candidano alle primarie dei democratici americani – a volte pure vincendole – provengono dai movimenti di Occupy Wall Street, dalle campagne di Bernie Sanders, sposano parole d’ordine antiche di rivendicazione della giustizia sociale, con un vocabolario aggiornato alla contemporaneità e orientato al senso comune.

Si spiega anche così l’inedita popolarità acquisita recentemente dal termine «socialismo» negli Usa, soprattutto fra i più giovani, che sembra poter sfidare la tesi di fondo di un classico della sociologia, come «Perché negli Stati Uniti non c’è il socialismo», scritto da Werner Sombart nel 1906.

Durante la crisi economica iniziata nel 2008 (vera linea di frattura che ci separa dal «mondo di prima» e che ci sospinge verso terre in buona parte incognite), mentre in Europa la parabola di molti partiti appartenenti all’internazionale socialista opacizzava il senso del termine, una parte del mondo giovanile americano riscopriva il potenziale di mobilitazione insito nel concetto di socialismo e lo declinava in forme rinnovate.
Sempre Testi ricordava la crescita impetuosa delle iscrizioni ai Democratic Socialist of America (Dsa), il gruppo in cui sono cresciuti molti «neo-socialisti», che oggi possono contare quasi 50.000 iscritti e più di 200 sedi nel Paese, con un’età media che è scesa dai 68 anni del 2013 ai 33 del 2017.
Fermo restando l’assunto di metodo delle scienze sociali più accorte, ossia che ogni contesto vive la sua storia e le sue specificità, forse da questa vicenda giungono richiami utili anche fuori dagli States e segnatamente per noi.

Lamentarsi per le carenze dell’offerta partitica è pratica sterile, se non si trasforma in volontà di confronto, riflessione e organizzazione al fine di incidere nella sfera pubblica. È un «invito al viaggio» che si rivolge a chi non si rassegna a subire l’egemonia altrui. Da una parte e dall’altra dell’Atlantico.