Si realizza un film e mezzo all’anno in Macedonia e di questi buona parte li ha realizzati Teona Mitevska, con il suo agguerrito gruppo di produzione composto da «sister and brother», Labina e Vuk, tutti e tre studi tra Usa ed Europa, Labina volto famoso internazionalmente perché interprete di Prima della pioggia di Manchevski, il primo film che ha portato alla ribalta nel 1994 questa cinematografia balcanica, di Benvenuti a Sarajevo di Winterbottom , di Nema Problema di Giancarlo Bocchi.

Il Torino Film Festival dedica a Teona Mitevska una personale con tre film di ferocia fiabesca, performance femminista in un universo patriarcale nel mezzogiorno d’Europa.
Il 19 gennaio, giorno dell’Epifania ortodossa, centinaia di uomini si gettano nelle acque ghiacciate del fiume tentando di ripescare la croce che il Pope getta in acqua e che assicurerà un anno di felicità al vincitore. Ma Petrunya è più svelta di tutti, si getta in acqua, afferra la croce e non ha intenzione di restituirla, tra lo scandalo generale per aver osato, lei donna, rubare la scena in un rituale da maschi. È Dio è donna e si chiama Petrunya (nelle sale il 12 dicembre), ispirato come spesso accade nei film di Teona Mitrevska da un fatto di cronaca. In un ribaltamento di schemi ad andamento speculare, nonostante la solitudine interiore dell’ombrosa protagonista, il confronto in scena è sempre duplice a sottolineare le arretratezze sociali: nel confronto con la madre assillante, con il datore di lavoro insinuante, con l’amica smaliziata, a tu per tu con il capitano di polizia e con il Pope. È la migliore, a dispetto delle critiche che vorrebbero demolirla nella vita quotidiana – troppo grassa, già troppo vecchia, vestita male, disoccupata nonostante la sua laurea – e tiene testa alle intimidazioni di autorità civili e religiose.

L’uso acuminato dello sberleffo si aggira nei film di Mitevska come lo era nei film balcanici del dopoguerra, con allusioni che riportano proprio all’epoca del comunismo: gli interrogatori, la presenza di una giornalista (personaggio sopravvissuto come da Prova microfono a L’uomo di marmo), impianti sportivi svuotati, un tempo oggetto di orgoglio olimpico.

Ma più che sogni i ragazzi macedoni della generazione di Mitevska hanno provato gli incubi dovuti agli sconvolgimenti delle trasformazioni storiche, agli effetti della guerra, come la regista aveva mostrato in Kaku Ubiv Svetec (Come ho ucciso un santo) dove una donna che torna dall’America scopre che tutto è cambiato nel suo paese, tra confusione mentale e terrorismo. A farne le spese sono stati anche i componenti della sua famiglia compreso il fratello minore diventato un terrorista. Un tema ripreso in When the Day Had No Name (2017), storia di una generazione perduta: effettivamente nel 2012 i corpi di quattro ragazzi furono trovati vicino a un lago nei pressi di Skopje dove erano andati in gruppo a pescare, a sentire musica, a divertirsi e sfogare la voglia di vivere (come non pensare a Corrente di Istvan Gaal?).

C’è stato perfino il cambiamento del nome della nazione. Ricordiamo la grazia con cui il giovanissimo Manchevski accettò di far ammainare la bandiera della Macedonia dal palazzo del cinema a Venezia dove era in concorso il suo Prima della pioggia (2007) perché la delegazione greca presente al festival si era dimostrata piuttosto innervosita. La sua migliore risposta fu la vincita del Leone d’oro. Non più Repubblica di Macedonia quindi, ma «Macedonia del nord».

Di quegli incubi della transizione resta traccia concreta in Io Sono di Tito Veles (2007) rivelazione a Berlino 2008, un allarmante sovrapposizione di surrealismo e realismo. La fuga verso l’estero, la disgregazione delle famiglie, la dismissione delle fabbriche e conseguente devastazione del territorio: in questa realtà vivono tre sorelle nella città che ha perso la denominazione «Tito» in onore del leader, fatto che la rendeva ricca di benefici e industrie e poi è rimasta nella desolazione. Ha perso la voce dopo la scomparsa dei genitori anche la protagonista (Labina Mitevska) sorella più giovane di tre che rappresenta ognuna un’età della vita della donna, tre diversi stati di malessere femminile, caratteristica comune l’ autodistruzione senza scampo.

Anche qui il punto di partenza è un fatto di cronaca (due sorelle trovate carbonizzate in un appartamento e si era poi scoperto che erano eroinomani), ma il racconto si espande in scene oniriche e situazioni al limite, come anime che desiderino riappropriarsi del loro destino o urlare la loro sconfitta. Ricompaiono i luoghi canonici del comunismo visti in tanti film degli anni ‘70, ma di segno rovesciato: la fabbrica causa di avvelenamento, i refettori, l’ospedale con i suoi tempi molto rilassati, gli infermieri come catturati da un film ceco, ma senza quello spirito sferzante, specchio invece di un machismo radicato in tutte le generazioni. Eppure Mitevska sa anche come tendere la mano a personaggi maschili meno rozzi.

Nel mezzo, è del 2012 The Woman Who brushed off her tears, ambientato tra Francia e Macedonia, tra Helena (Victoria Avril) ufficiale di controllo penitenziario del macedone Lucjan spacciatore a fine pena e Ajsun (Labina Mitevska) che vive la vita rurale della pastorizia con il figlio di Lucjan che non l’ha sposata e con il padre che ha giurato di ucciderlo appena tornerà. Una vita devastata quella di Helena che si trasforma quasi in una divinità ferina della vendetta, una condizione speculare quella di Ajsun decisa a ricomporre il suo nucleo familiare, un serrato meccanismo che tende a fare incontrare due universi inconciliabili. Come il passato e il presente della Macedonia.