Questa stagione fredda e dolorosa si è portata via, ieri, anche Franco Scaldati, poeta della scena vivente palermitana, l’artista che ha saputo ridare voce alla lingua della città. E tanta parte del rinascimento culturale (e dunque politico) che per un tratto vi si è colto; tante esperienze nuove che poi sono state capaci di uscire dai confini orgogliosi dell’isola, dal cinema di Ciprì e Maresco al teatro di Emma Dante, forse con più difficoltà avrebbero potuto manifestarsi senza quella sua presenza appartata, per carattere meno vistosa, per quasi quarant’anni impegnata a scavare nel ventre di Palermo, in una sua zona d’ombra, per tirarne fuori quei personaggi marginali, disperatamente comici e un poco irreali che riversava nei suoi testi. Calati in una scrittura che attraversa con violenza e dolcezza un mondo interiore di velata sensualità.

Teatrante e sciamano, lo avevo a lungo definito. Giacché Scaldati sempre di più veniva assumendo su di sé il ruolo di mediatore degli inferi della città, della sua parte oscura, dei suoi eroi ai margini della vita. Personaggi che emergono per una sorta di evocazione medianica dalla voce dell’autore, incerti fra la vita e la morte, come quelli di  Lucio, isolati in un antro imbiancato dalla luna, dove non c’è più azione e il dialogo è ormai superato, è diventato parola pura, a cavallo fra favola e poesia. Attraverso il flusso di una parola aspra e visionaria, nell’incanto di una lingua antica che pare poter vocalizzare ogni lettera, per il piacere della sonorità, prende vita nei suoi testi un universo poetico fortemente ancorato nella terra siciliana ma lontanissimo dai luoghi comuni che la marchiano. Storie di solitudini che si incontrano. Sono i due barboni del Pozzo dei pazzi in lotta per una gallina; i vecchi solitari e alcolizzati di Assassina; l’usuraio cieco di Occhi, vittima provvisoria di una nipote che gli vende un po’ di sesso, che racconta lo sprofondamento verso una sessualità maledetta.

Gli inizi erano stati però da attore, in anni ormai lontani che poi definiva tranquillamente «quasi da filodrammatica». Prima che questa attività cominciasse a fondersi con la scrittura, con una idea di teatro maturata soprattutto attraverso esperienze di vita e l’incontro con nuovi compagni, quelli che resteranno un punto di riferimento umano e artistico costante, come Melino Imparato e Gaspare Cucinella. C’è un forte senso di gruppo nell’esperienza di Scaldati, con tutta la conflittualità che ciò naturalmente si porta dietro. «Non riesco a scrivere se non mi innamoro delle persone con cui lavoro», diceva. È il momento in cui nasce la Compagnia del sarto, così chiamata dal soprannome rimasto appiccicato a Scaldati per il precedente mestiere. E dentro la scrittura, la scelta di far ricorso alla lingua siciliana, al di là dell’accezione dialettale. La lingua dei quartieri popolari di Palermo, fra la Kalsa e il Borgo.

Comincia a nascere così Il pozzo dei pazzi, all’inizio poco più di un canovaccio che solo a distanza di una quindicina d’anni giungerà alla forma definitiva. La prima versione debutta a metà degli anni settanta, nella sala di via Calvi che diventerà per un periodo la sede del Piccolo teatro di Palermo. «Ce lo produssero con duecentomila lire che ci servirono per affittare uno scantinato – ricordava poi Scaldati – Lo tenemmo su un mese, dieci persone a sera». Diventerà il suo testo più noto.

Il pozzo dei pazzi è un atto di memoria. In scena personaggi conosciuti durante l’adolescenza vissuta al Borgo,che era in quegli anni, nel dopoguerra, un’esplosione di umori e di violenza estrema. Ma non c’è sentimentalismo nel modo in cui Scaldati guarda ai quei personaggi. Violenza e tenerezza, componenti indivisibili del suo universo, sono la chiave interpretativa per penetrale la complessa geografia sociale della città. Della quale è anche esigente amante, e lamenta lo scarso riconoscimento se non proprio il rifiuto che da essa gli viene, pur rivendicando il non voler piacere al pubblico a tutti i costi. Da ultimo aveva trovato ospitalità nel quartiere popolare dell’Albergheria, tra i più poveri e degradati della città: «una stanzetta», ricavata nella sacrestia della parrocchia di San Francesco Saverio condotta da un prete coraggioso come qui ha da essere, Cosimo Scordato. Lì sono nati i personaggi di Totò e Vicè, eredi della coppia del Pozzo dei pazzi nel recitare il teatrino quotidiano delle strade della città.

Ma che città è questa che fatichiamo a riconoscere? Palermo era bellissima, nei primi decenni del novecento, ci raccontavano i vecchi di casa. O era la bellezza nostalgica della giovinezza, acuita dalla nostalgia di chi è andato lontano? Certo Scaldati cercava un’altra città, mentre si aggirava muto fra le rovine mai rimarginate del centro storico, eppure miracolosamente preservato dalla fuga della sua piccola e grande borghesia, in quel progetto fuori formato intitolato appunto Il ventre di Palermo. E Ciprì e Maresco avevano provato a raccontarla qualche anno fa con la magia aleatoria e fugace di uno spettacolo d’occasione, Viva Palermo e Santa Rosalia, che chiamava sulla stessa scena Franco Scaldati e Mimmo Cuticchio, l’erede e reinventore dell’antica tradizione dei pupi, per mostrare l’altra faccia di quell’antica bellezza, neppure più ravvivata dalla festa dei colori rosa e nero. Munnizza e sasizza, immondizia e salsicce – continuano a brontolare i suoi personaggi.