Nella piccola panetteria dietro a Place de la Republique, al pomeriggio piena di bimbetti che escono da scuola, un cartello informa che il sabato non verrà garantita l’apertura a causa delle manifestazioni dei Gilets Jaunes. A chi le chiede cosa ne pensa, la giovane panettiera alza le spalle ridendo davanti al figlio che si nasconde nella cesta del pane: «Va come va» è il suo commento (sibillino). Come che vada una cosa è sicura:la Francia ha scoperto e non adesso, non coi Gilets Jaunes, di avere crepe profonde nella sua «(auto)narrazione» di paese del diritto dell’uomo e la risposta macroniana non è differente da quelle che si rincorrono nell’Europa/occidente, ovvero politiche sempre più liberiste e limitazioni alla libertà fatte passare come una forma di attenzione al benessere collettivo.

E mentre la rete moltiplica le immagini delle violenze qui e nel mondo, mentre tutto si può comunicare – e manipolare – in tempo reale, quale è lo spazio che rimane al cinema, a quel cinema che con la realtà del tempo vuole fare i conti senza appiattirsi alla semplice riproduzione dei fatti?

A QUESTA DOMANDA (e alle molte altre che ne derivano) prova a dare una risposta Cinéma du Reel, il Festival parigino del documentario, in corso in questi giorni a Parigi, con la nuova direzione di Catherine Bizern. La «linea» insieme decisa e multiforme di ricerca è chiara sin dalla scelta della retrospettiva dedicata a Kevin Jerome Emerson, di cui il festival presenta in Francia per la prima volta l’opera completa, un cineasta e artista che rende il suo racconto «dall’interno» della comunità african american radicalmente politico anche, o soprattutto, attraverso la scelta delle forme cinematografiche utilizzate, la sperimentazione continua, la ricerca.

Non solo «soggetti forti», uno dei grossi malintesi di ciò che si pensa come cinema «politico» e nemmeno soltanto compiacimenti «artistici», quei «film da festival» che da qualche anno un po’ noiosamente ricorrono nelle programmazioni internazionali. Bizern ha creato un programma compatto in cui le diverse sezioni dialogano tra loro, provano a guardare il cinema nel suo farsi e nella sua volontà di essere nel reale, si interrogano e si confrontano, dal Sessantotto godardiano che già dubita su sé stesso – Un film comme les autres – a Chaco (nelle nostre sale oggi) e L’impenetrabile di Daniele Incalcaterra e Fausta Quattrini a Selfie di Agostino Ferrente che chiede ai suoi protagonisti, due ragazzini del Rione Traiano, a Napoli, di filmarsi con uno smartphone e loro in questa immagine provano a rispondere a quelli che sono divenuti i luoghi comuni di una iconografia che rischia di essere una nuova gabbia dell’immaginario.

Jean Marie Barbe, «un visionario» è stato 27 anni fa il fondatore degli Etat Géneraux (Gli Stati Generali) di Lussas, divenuto uno dei riferimenti per chi fa documentario in Francia e nel mondo e che nel tempo ha reso il piccolo centro agricolo e di produzione di vino nell’Ardeche un luogo di cinema. Barbe è anche tra i fondatori di Tenk, la piattaforma creata per distribuire e produrre documentari d’autore, grazie al sostegno di produttori, tecnici, registi, scuole di cinema. È questa scommessa che racconta Le village, la serie documentaria realizzata da Claire Simon, diciotto episodi ciascuno di trenta minuti – in due stagioni – che seguono in «tempo reale» ideazione e costruzione di Tenk attraverso diversi momenti quotidiani, quelli istituzionali e quelli di confronto dentro al gruppo, le esitazione e i dubbi, la determinazione, i rapporti con quanto c’è intorno, non solo il festival ma anche la realtà della cittadina coinvolta e insieme assorbita dalle sue attività . Ma perché una serie su quella che a molti potrebbe apparire come una realtà molto particolare, legata a un ambiente circoscritto, iperspecialistica persino o comunque poco nota ai più?

PERCHÉ, appunto, non siamo dalle parti di Netflix o dei colossi dello streaming, al contrario l’impresa in questione che dialoga strettamente con il festival all’interno del quale è nata la piattaforma è nata dal lavoro dei suoi componenti, una piccola equipe determinata di diverse generazioni che con Barbe condivide prima di tutto l’entusiasmo e la passione per l’avventura. Non si tratta di soldi, anzi all’inizio ce ne sono ben pochi – mentre il lavoro è tantissimo – quella che intraprende il gruppo è una lotta per la specificità e l’indipendenza all’interno di un mercato nel quale sembra esserci sempre meno spazio: una lotta di genere, una lotta di classe.

ECCOCI dunque agli esordi, durante il festival degli Etat Genéraux, il villaggio è invaso di ragazzi, di schermi, montati anche nell’erba, di immagini, di musica, è estate, gli incontri e le discussioni si mescolano alle danze la sera tutti insieme. Tenk è cercare i fondi, cercare partner, cercare una sede che unirà tutte le diverse attività del festival. E poi stilare uno «statuto», farsi consigliare sugli errori, confrontarsi, dare voce alle aspettative ma anche ai dubbi. Dalla commissione del Cnc agli uffici di Mediapart, nelle strade di Lussas, la mattina presto quando i negozi devono ancora tirare su la saracinesca, tra gli agricoltori al lavoro e con gli abitanti che partecipano quando possono anche loro alla raccolta dal basso di fondi per Tenk.

E ANCORA le discussioni sulle scrivanie, su come organizzare gli spazi della nuova sede, dove mettere la cucina fino all’incontro con la ministra francese della cultura…. La scommessa episodio dopo episodio diviene anche quella della regista che nel suo «fare documentario» mette al centro la messinscena, strumento politico come parola, come racconto, per rendere i suoi protagonisti sempre anche «personaggi». Qui la necessità era più forte lavorando sulla serialità, Simon è accanto a loro, e al tempo stesso dentro il suo sguardo dà vita a un mondo: Le village diventa questa comunità, quella di Lussas, l’incontro tra le due, realtà che condividono lo stesso desiderio di resistenza. Il nostro presente è lì, nelle sue variabili sfumature, Simon lo coglie con leggerezza e con precisione facendo cinema.