La vittima non si vede che alla fine del primo episodio. Eppure è intorno al corpo martoriato di Brenton Butler, quindicenne nero investito dal poliziotto bianco Peter Jablonski mentre andava in bici in un parco di Jersey City, che ruota l’intera storia della prima stagione di Seven Seconds, la nuova serie antologica di Netflix in dieci episodi creata da Veena Sud.
Intorno a lui, ma molto presto oltre di lui: il poliziotto che l’ha investito scivolando sulla strada ghiacciata vorrebbe da subito confessare, fare la cosa giusta, ma viene fermato dai colleghi della narcotici che in preda al panico chiama sulla scena dell’incidente.

«Ci crocifiggeranno tutti per questo» dice a Jablonski (Beau Knapp) il suo superiore, riferendosi a omicidi come quello di Michael Brown a Ferguson o più recentemente di Terence Crutcher a Tulsa, due nomi di una lunga lista di uomini neri disarmati uccisi da dei poliziotti. Ma Brenton non è morto: abbandonato in mezzo alla neve da chi avrebbe dovuto tutelarlo viene ritrovato molte ore dopo e portato – in coma – all’ospedale.
In questo caso  non si è trattato dell’ omicidio di un uomo disarmato ma di un incidente, eppure nel clima teso della società americana i fatti e le loro valutazioni oggettive sono pronti a essere trasfigurati dall’isteria alimentata dai mass media.

Da questa valutazione deriva la vera colpa di Jablonski: accettare l’insabbiamento che nelle prime sequenze della serie i suoi colleghi ordiscono per lui – e soprattutto per se stessi. A girare l’episodio pilota non a caso è Gavin O’Connor (anche produttore esecutivo), che in Pride and Glory – Il prezzo dell’onore aveva già raccontato il «lato oscuro» e violento delle forze dell’ordine, dove lo spirito di corpo sfocia spesso in un codice del silenzio che copre i crimini peggiori.

Quella del secondo episodio – Brenton’s Breath – è invece l’ultima regia di Jonathan Demme, scomparso lo scorso aprile e che ha diretto proprio il capitolo di Seven Seconds dedicato al «risveglio» dell’eroina: l’assistente procuratore K.J. Harper (Clare-Hope Ashitey) che ci viene mostrata nelle prime sequenze di Brenton’s Breath mentre attraversa il carcere maschile, bersaglio dei volgari apprezzamenti dei detenuti come era toccato molti anni prima a Clarice Starling nel Silenzio degli innocenti.

Alcolizzata, imbranata e disillusa, K.J. è in quel carcere perché il suo intuito le ha detto di non fidarsi della versione ufficiale della polizia, che ha già incastrato un homeless per l’omicidio. È attraverso lo sguardo di Harper che vediamo infatti per la prima volta Brenton Butler, steso sul letto d’ospedale e attaccato a un respiratore.
Gli occhi dell’assistente procuratore si aprono letteralmente sul suo dolore e l’ingiustizia che ha subito, che dà avvio al suo cammino di redenzione per trovare il vero colpevole – e che porta la serie creata da Veena Sud sul terreno della detective story e poi del dramma giudiziario. Mantenendo però sempre la sua forte presa sulla realtà e la vocazione «politica», la volontà dichiarata di interrogarsi attraverso le convenzioni del genere ma senza banalità sulle tensioni violente che scuotono la società Usa, sul sistema di potere che oscura la realtà, quello dei media che la manipola a suo piacimento e su quella faticosa «retta via» che si può perdere in soli sette secondi.