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Le versioni originali dei cruenti fratelli Grimm

Le versioni originali dei cruenti fratelli Grimm

Fiabe Biancaneve perseguitata dalla madre, Raperonzolo incinta... In lingua italiana la versione non addomesticata di una raccolta divenuta canone

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 3 gennaio 2016

Da qualunque punto di vista si guardi al mondo fiabesco ci si imbatte nella sua complessità: la fiaba non è mai quel che sembra, è metafora, nascondimento e rimando continuo ai sedimenti culturali, storici, antropologici, sociali eppure immaginifici di un mondo per un verso espanso nell’universalità del fiabesco, e per l’altro racchiuso nelle credenze di una regione in cui la tal fiaba si racconta con dettagli e accenti differenti rispetto a quella confinante.

Come le narratrici e i narratori orali inserivano nel loro racconto ciò che a loro più stava a cuore (così scrive Calvino) e dunque assegnavano una loro cifra interpretativa al proprio repertorio mettendone a punto la regia, così, con altri strumenti culturali, hanno lavorato anche gli autori colti che si sono dedicati a raccogliere e redigere fiabe. I Grimm, certo, tra gli altri.

Nella prefazione all’edizione datata Kassel, 18 Ottobre, 1812, scrivevano già: «Era forse giunto il tempo di fissare queste fiabe poiché chi ancora dovrebbe serbarle nella memoria si fa sempre più raro (naturalmente chi ancora ne conosce ne sa moltissime, ma le persone si estinguono mentre le fiabe perdurano). È la consuetudine a raccontarle a venir meno, proprio come certi angoli intimi delle case o dei giardini che cedono il passo ad un vuoto splendore…».

Le centocinquantasei fiabe della storica raccolta Fiabe del focolare, conosciute nella versione della settima e ultima edizione che i fratelli Grimm pubblicarono nel 1857, escono ora anche in lingua italiana, riproposte da Donzelli nell’originaria stesura dei due tomi del 1812, e del 1815, a cura di Camilla Miglio, con 24 tavole di Fabian Negrin (Jacob e Wilhelm Grimm, Tutte le fiabe, pp. XXXVI-670, euro 35,00). È a Jack Zipes che si deve l’ostinata restituzione al pubblico internazionale dell’edizione originale della raccolta completa dei Grimm, un viaggio a ritroso che smaschera e riporta alla luce testi ai quali fu riservato un paziente trattamento di rivisitazione e rifinitura, partendo dalle versioni raccolte tramite le diverse fonti orali e non, per arrivare alle pagine letterarie conformi alle aspettative e ai valori condivisi dalla collettività della Germania di metà Ottocento. Le «gemme, come i due fratelli chiamavano le loro fiabe, hanno sopportato, infatti, differenti destini: le 41 fiabe scelte per Principessa Pel di topo, ad esempio, ritornano ai lettori abbandonando gli abiti da festa con cui i loro «adattatori» le avevano ingentilite o, in altri casi, addirittura riemergendo dagli scartafacci messi da parte.

Il corpus di questi testi fonda, non solo simbolicamente, l’atto con cui prende avvio il transito alla pagina scritta di gran parte di quel patrimonio orale, mentre il risuonare delle voci narranti si deposita sulla pagina in una forma che non sarà mai più la sua. Al tempo stesso le fiabe si trasformano e restano a noi, sebbene mutate. Inizi e fini, nascita e morte, mondo di qua e mondo di là, storie del sentito dire e racconti inverosimili, testimonianze, lasciti della memoria collettiva e deformazioni surreali, nel fiabesco partecipano a una migrazione verso l’altrove atemporale e imperituro che si distanzia dal qui e ora del reale, reinterpretato nella geografia del nessun dove.

Dall’altrove in cui dimora, la fiaba confonde e inganna chi voglia renderla innocua e, da ritornante quale è, attraversa le dimensioni stratificate dei nostri passati e sopravvive alle meticolose ripuliture censorie che le sono state ripetutamente imposte. Ritorna in forma di reperto, di nucleo fondante, si apre un varco nell’opacità dell’indistinzione dei codici e, spesso, anche dell’appiattirsi dei generi e riprende la parola suscitando scandalo e ritrosia, come avvenne anche nel 1815, all’uscita del secondo tomo dei Grimm. Succede ancora: indiziaria e sovversiva, la trama fiabesca suscita l’inquietudine del Perturbante, ribalta i destini e manda sul trono i miseri, i brutti, i deformi, sta dalla parte dei più piccoli, i bambini solitamente orfani, affamati e abbandonati. Inscena la paura della paura, scava nel fondo dell’indicibile. Poi, esalta il sogno, il desiderio, l’utopia. E ci ricorda il motto del romantico Novalis, tutto è fiaba.

I Grimm si preoccupavano che il raccontare fiabe venisse meno. Si davano pena per la perdita del risuonare di voci narranti vitali e mutevoli, in ascolto l’una dell’altra e del sentito dire che fluttuava tra stalle, campagne e mercati, fin nel caldo e protettivo tepore di severe dimore borghesi. Temevano l’estinguersi della tradizione orale e del suo patrimonio di storie, fiabe, canti e proverbi e si assegnavano un compito preciso: ritessere quelle trame nel luogo a loro più familiare, la lingua tedesca.
In quella Heimat che è la lingua, si esprimeva una vocazione narrativa e poetica – mitopoietica – di così vasta portata culturale da prendere poi la forma, via via che si susseguivano le sette edizioni del loro grande libro – Kinder- und Hausmarchen – di una sorta di canone della fiaba ceduta dall’oralità alla scrittura.

Si trattava, allora, di fissare le fiabe per salvarle dalla temuta estinzione. Come spiega ampiamente Camilla Miglio nell’introduzione, il contesto storico-culturale del «cantiere» dei Grimm esalta l’intendimento di «immaginare una patria culturale ideale» che prenderà sempre più le sembianze di un soggetto-nazione di cui il corpus delle fiabe evoca il cuore pulsante. Un cantiere aperto per quarantacinque anni: «Le sette edizioni intercorse tra la prima e l’ultima presentano ciascuna un proprio carattere, e quindi ciascuna va pensata come performance editoriale rivolta a un pubblico specifico, come risposta a un’audience che chiedeva un libro per la Germania in stato nascente, un libro per le famiglie, un libro educativo per le letture scolastiche, un libro temperato e orientato al lettore borghese di metà Ottocento».

Fissare la fiaba ascoltando quell’eco significava anche, per i Grimm, indicare sempre le fonti, riconoscere il contributo delle narratrici (una di esse sposerà Wilhelm) e dei narratori, delle voci del popolo e di altri strati sociali, tutte irrinunciabili. Significava, poi, compiere una scelta editoriale fondamentale: i destinatari sarebbero stati i bambini. Dunque, l’erede dell’inestimabile patrimonio derivato dall’intreccio tra tradizione folclorica e scrittura letteraria è l’infanzia; del resto, proprio negli anni in cui i Grimm scrivono, si manifesta una nuova sensibilità verso la dimensione esistenziale delle prime età della vita. Ma i bambini, guarda caso, sono pur sempre i robivecchi del tempo, scrive Giorgio Agamben nel suo Infanzia e storia (Einaudi, 1978), giocano con il tempo, con la storia, con la memoria. Gli adulti consegnano loro le miniature e i simboli del passato: giocattoli, storie, fiabe. E la fiaba, nata non per l’infanzia ma per tutti, entra di diritto nella stanza dei bambini. Risuona il monito di Walter Benjamin, che già nel 1936 nel Narratore, ripeteva che «il primo e vero narratore è e rimane quello di fiabe»; ma poi metteva in guardia circa l’allontanarsi di quella solenne figura.

Le fiabe che ritornano risalgono dai libri e richiamano le voci. Il ciclo può ricominciare al contrario e i bambini ne sono gli artefici.
Certo, nella nebulosa dell’oralità la fiaba viaggiava liberamente e, pur rispettando alcune costanti relative a temi e motivi, godeva della fluidità performativa dei narratori. Invece, nel libro che fissa e controlla, si smarrisce questa sinfonia del cantare-contare, svaporano le gestualità e le polifoniche sorprese dei dialetti. Eppure, in Tutte le fiabe si ricupera, in parte, il ritmo della partitura originaria cui la concisione dell’oralità fa riferimento.

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