È stato detto che la Corea del Nord è uno dei pochi grandi misteri rimasti sul nostro pianeta. Ma il segreto che la Dprk cela al di là della «cortina di ferro» che la avvolge, non è la verità sulle presunte usanze crudeli del giovane despota Kim Jong Un, sulle sue trame nucleari o ciò che accade nei campi di concentramento. Il vero segreto è nascosto nelle menti dei nordcoreani, nei pensieri di 25 milioni di persone che la popolano.
È questo che ci dice Under the Sun, il documentario del regista russo Vitaly Mansky presentato in questi giorni al Biografilm Festival di Bologna nella sezione dedicata proprio alla Corea del Nord: Paese non ospite.

Per poter girare il suo documentario sulla vita di una famiglia qualsiasi nordcoreana Mansky è ricorso a un escamotage, e lo annuncia da subito nella didascalia che apre il film: la Corea del Nord è stata coinvolta come co-produttrice, e il regista russo ha accettato che la sceneggiatura gli venisse consegnata da funzionari governativi. «Hanno scelto le location in cui avremmo filmato e hanno ricontrollato tutto il girato, per essere sicuri che non ci fosse alcun errore nel modo in cui mostravamo la vita di una famiglia perfettamente ordinaria nel ’miglior paese del mondo’».

Il film segue così la piccola protagonista Rhee Zin-Mi, studentessa delle elementari che si appresta insieme ai coetanei a fare il suo ingresso nell’Unione dell’infanzia, una sorta di gioventù balilla in versione nordcoreana. In una scena, dove appare seduta a tavola a pranzare con la sua famiglia, comprendiamo i meccanismi e l’entità del controllo esercitato sul film dalle «guardie» di regime. Il padre le dice di mangiare il kimchi, piatto tipico del paese, che contiene tutte le vitamine più importanti. Zin-mi elenca quanto ha imparato a scuola sul kimchi e lei, madre e padre ridono allegramente.

La macchina da presa però continua a riprendere, e in campo entrano i «registi nell’ombra» per chiedere di rifare la scena mettendo più enfasi sulle proprietà del cibo coreano, dicono a Zin-Mi di sedere più composta e chiedono ai tre di ridere mettendoci un po’ più di allegria.
«Mi ha sempre interessato il concetto di libertà e la sua mancanza», ha detto in un’intervista Mansky, nato in Ucraina ai tempi in cui il paese era parte dell’Unione Sovietica. Con il suo Under the Sun traccia così un percorso alla ricerca di una forma di verità che passa dalla finzione più completa, dalle manipolazioni della propaganda di regime: «la propaganda è sempre anche contro-propaganda – aggiunge il regista – il mio scopo era girare un film come Il trionfo della volontà di Leni Riefenstahl, che è entrambe le cose allo stesso tempo».         

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Attraverso Zin-Mi e la sua famiglia – che dopo l’ingresso nell’Unione dell’infanzia si apprestano a celebrare il giorno della stella luminosa, e cioè il compleanno di Kim Jong-Il – la sceneggiatura nordcoreana ci porta con vari pretesti in tutti i luoghi che «danno lustro» al paese. A partire dal posto di lavoro del padre della bambina, che da giornalista – come aveva detto al regista la stessa Zin-Mi in uno dei loro primi incontri – viene all’occorrenza trasformato nell’ingegnere capo di una fabbrica tessile. Il massimo della propaganda svela così la propria natura artefatta, quasi ingenua nell’entusiasmo eccessivo che la attraversa.

Com’era prevedibile, il film ha suscitato le cocenti proteste della Corea del Nord, che sembra abbia fatto pressioni sul Festival di Tallinn – dove Under the Sun è stato presentato in anteprima – perché venisse tolto dal programma. Su un giornale nordcoreano un’intervista alla madre della protagonista scredita il regista, definito «un ipocrita dal cuore nero». Ma l’accusa più pesante – come riportato dal Guardian – è quella dell’ex Ministro della cultura russo Mikhail Shvydkoy, secondo il quale il lavoro di Mansky avrebbe messo in pericolo le vite dei funzionari incaricati di affiancarlo – e controllarlo – durante le riprese. Ma dal momento in cui la «cortina di ferro» è scesa dietro di lui, non avremo forse mai modo di sapere la sorte di coloro che il regista ha lasciato alle sue spalle.

Nel finale del film, la piccola Zin-Mi piange, probabilmente stremata dalle decine di ciak e dalle pressioni subite per recitare la sua parte correttamente. «Dille di pensare a qualcosa di allegro», suggerisce alla madre una voce fuori campo. «Ma a che cosa?», chiede la piccola. La verità sulla propaganda, svelata con l’intuizione di protrarre le inquadrature oltre il limite stabilito, non ha minimamente intaccato il segreto dei suoi pensieri. Né dei tanti nordcoreani intravisti in metropolitana o in altri luoghi pubblici mentre fissano interdetti la macchina da presa. Dietro i loro occhi resta custodito quello che il film sa di non poter raccontare: preoccupazioni, aspirazioni, desideri, la verità di un mondo in cui come dice lo stesso Mansky «la vita reale non esiste nel modo in cui noi la intendiamo», e di cui il suo film esibisce il simulacro immaginato dal regime.