La proiezione del film di Garrel è stata seguita, come da programma, da un breve (ma intenso) dibattito con il pubblico. L’inatteso è venuto dalla proiezione, eccezionalmente aumentata di sei minuti dalla piacevole sorpresa di un film ritrovato. Nel lontano 1968, ad un Garrel ventunenne, venne l’idea di girare una serie di corti di contro-informazione. Ne realizzò solo uno, Acte 1, che si credeva perduto. Ritrovato recentemente, è stato inserito nel programma, per la gioia di tutti i garrelliani presenti.

Acte 1 riprende la forma esteriore (sei minuti, bianco e nero, 35 mm) dei cinegionali Pathé ma ne ribalta il contenuto (gollista). La gran parte delle immagini sono quelle, classiche, degli scontri tra polizia e gli studenti intorno al Quartiere latino, che Garrel ha ricostruito ne Les Amants réguliers; altre mostrano un grande corteo intorno alla Place de la République (la rivoluzione è passata anche per la rive droite!). Una voce off recita qualche fatto: «il tribunale Russel ha dichiarato che il gas lacrimogeno è un arma potenzialmente mortale» e molti slogan sul modello: «la rivoluzione è…» Questi ultimi sembrano uscire dal Libretto rosso, durante il dibattito Garrel ha invece precisato che «sono tutti tratti da Sade».

In quanto documento del cinema militante Acte 1 costituisce una curiosa introduzione alla storia d’amore e di tradimenti de L’ombre des filles. L’accostamento sembra fatto apposta per sottolineare una distanza tra l’uno e l’altro che il dibattito ha invece accorciato, sin dalla prima domanda: perché il bianco e nero? Dal ’ 68 ad oggi, è una domanda che Garrel si è sentito rivolgere spesso, senza mai variare la risposta: «Perché è meno caro». Nel ’68 era vero. Ma nel frattempo è accaduto che la pellicola b&n diventasse più cara di quella a colori e che il digitale rendesse entrambe antieconomiche. Il tempo ha trasformato la verità in palese controsenso. Tanto palese che il pubblico ride, taluni pensando che Garrel scherzi, talaltri che la battuta esprima non tanto uno stato di cose attuale ma un attaccamento (di Garrel) al passato (è così anche per molti momenti del film, la sala ride, un po’ con il film un po’ contro il film). Ma non è detto che Garrel scherzi.

Qualche domanda dopo, ritornando sul tema ha precisato che la scelta del b&n consente effettivamente di risparmiare «sul trucco, sulle luci, sulle scenografie… e quindi sull’equipe e sui tempi di produzione di tagliare il budget della metà». Garrel si è dilungato sulla crisi economica europea, sul suo impatto sul cinema, sul ruolo di questo, che «in quanto prodotto, distrae il pubblico dalla crisi economica mentre, in quanto industria, pratica le misure d’austerità».

Dov’è la coerenza tra un discorso così politico e un film, L’Ombre des femmes, che, almeno in apparenza, non ne contiene alcuno? A questa domanda, che nessuno ha avuto la sfrontatezza di porre direttamente, Garrel ha risposto a suo modo parlando del personaggio del vecchio eroe della Resistenza il quale (attenzione si rivelano elementi essenziali della trama) si rivela infine essere un mitomane. Tutte le imprese che il partigiano racconta davanti alla cinepresa di Pierre (Stanislas Merhar) sono finte. O meglio, «Questi racconti sono storie vere, appartengono alla memoria della mia famiglia e mi sono stati trasmessi da mio padre (l’attore Maurice Garrel)» ma li ho utilizzati per creare il personaggio di uno che fa finta di aver partecipato alla resistenza».

Già nel titolo, L’Ombre des femmes fa eco al film per eccellenza sulla resistenza, L’Armée des ombres, ma questa eco è inaudibile tanto sembra accidentale. Oppure, come nel caso del rapporto tra veri ricordi e falso partigiano, se riesce a cogliere in un primo momento solo il chiasmo, l’inversione. Questo perché la Resistenza è «un mito intoccabile, un fatto indiscutibile.» Ma proprio a questo a Garrel reagisce, come ha spiegato, «non certo per negare l’importanza della Resistenza», ma piuttosto per istaurare un altro rapporto con la memoria. Non un rapporto oggettivo ma un rapporto sentimentale.

Il senso profondo del film è che «la verità sentimentale ha la meglio sulla verità storica». Il sentimento non è apolitico, grande lezione del ’68, che in questo deve certo più al marchese de Sade che al presidente Mao. Il sentimento non afferma cose politiche, ma le mostra. L’ombre des femmes in effetti non tiene un discorso, preferendo far vedere (sin dalla prima inquadratura) delle condizioni oggettive di vita difficile che, proprio perché non separate dai sentimenti, hanno l’eloquenza dell’effettività.