Al confine tra l’India ed il Pakistan si trova la regione detta dei cinque fiumi: il Punjab, uno dei territori più fertili al mondo. Tra i suoi primati, però, rientra anche l’altissimo tasso di suicidi dei piccoli agricoltori che non riescono a pagare i loro debiti con i grandi proprietari terrieri, per la terra, per l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi ormai obbligatori. Proiettato in questi giorni al Trento Film Festival – dove la regista Kavita Bahl è membro della giuria – Candles in the Wind documenta questa tragedia scegliendo il punto di vista di chi sopravvive a coloro che hanno ceduto all’angoscia: le donne, lasciate sole con i debiti, i figli da crescere ed un’attività in perdita in un mondo fortemente patriarcale.

Bahl, insieme al co-regista Nandan Saxena, visita vedove e madri del Punjab, scegliendo in qualità di donna e narratrice di mettersi al loro fianco per raccontarne la storia, fino ad intrecciare la propria con la loro. Il vero e proprio sistema del debito non decima solo le famiglie, ma logora il tessuto sociale: i parenti si voltano le spalle a vicenda, i più giovani non possono permettersi di andare a scuola, le donne devono combattere per non venire di nuovo date in moglie lo stesso giorno del funerale del marito. Tra chi le aiuta, c’è un’organizzazione non governativa, che ha fondato una scuola e paga 1000 rupie al mese alle famiglie in cui ci sono stati dei suicidi per far studiare i figli. Aspettano un aiuto economico dal governo, che forse non arriverà mai. Poi ci sono i sindacati con parole d’ordine sempre più desuete nell’Occidente dell’Expo ecumenico aperto al terzo mondo: ridistribuzione delle terre, pari diritti di uomini e donne. E dignità: quando la regista stessa offre un aiuto ad un’anziana donna che ha perso il figlio lei rifiuta, dicendo di non poter accettare qualcosa che non le spetta di diritto.

I suicidi tra gli agricoltori del Punjab sono diventati quasi un’epidemia. Perché sono diffusi solo tra gli uomini, mentre le donne continuano a combattere nonostante siano state lasciate da sole? 

La maggior parte dei suicidi avviene tra gli uomini perché loro portano il fardello del patriarcato. Sono gli uomini a dover dare da mangiare alla famiglia, e l’agricoltura dipende da loro. Quando non riescono più a sostenere i costi per un lavoro sempre meno remunerativo, entrano in depressione. L’ego ed il senso di «mascolinità» generati dal patriarcato fanno si che non condividano i loro problemi con le donne. Nella maggior parte dei suicidi tra gli agricoltori, solo dopo la morte del marito, le donne scoprono l’ammontare del debito.

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Una delle prime conseguenze è l’allontanamento delle famiglie… 

Durante un’intervista con un uomo sopravvissuto al suicidio, la moglie spiega candidamente che i parenti ti evitano quando diventi povero. Sfortunatamente, anche nelle comunità agrarie lo status economico definisce quello sociale di una persona. Il debito è assolutamente uno dei fattori responsabili della frammentazione della società.

La tragedia del Punjab le consente di toccare due temi di portata più ampia: le lotte per una distribuzione equa delle terre e per i diritti delle donne. Quali pensa siano le speranze di questi movimenti in India oggi? 

Molto deve cambiare in India affinché le donne possano avere una vita migliore. Dalla discriminazione di genere fin dalla prima infanzia a un diverso ordine di valori per le giovani ragazze, mentre le donne non devono più essere viste come oggetti. L’India deve cambiare il proprio modo di pensare, imparando a rispettare le donne, come le vedove del Punjab. Molte di loro conducono delle battaglie solitarie contro il pensiero patriarcale, e riescono a resistere in un sistema che le sfavorisce a tutto vantaggio degli uomini. Sono davvero «candele nel vento» che combattono un sistema ingiusto. Una distribuzione equa della terra, il riconoscimento legale delle donne agricoltore e il loro diritto alla proprietà non sono stati loro ancora riconosciuti.

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Col procedere del film lei è sempre più coinvolta in prima persona da ciò che succede, cambiando il suo status di narratrice. Perché questa scelta?

Candles in the wind è diventato un viaggio personale. Le mie radici sono in Punjab, la terra dei miei antenati. Restare ai margini non avrebbe funzionato. Per questo il co-regista (anche direttore della fotografia) Nandan Saxena mi ha suggerito di entrare nell’inquadratura per fare le interviste. Questa scelta ha da subito modificato l’aspetto del film e metteva a loro agio delle donne che si trovavano di fronte ad una telecamera per la prima volta nella loro vita. Con il procedere del lavoro, sono diventata un «personaggio» io stessa. Il mio coinvolgimento non è quello di una semplice intervistatrice, ma di una donna regista in carne ed ossa. La camera si rivolge al narratore per rivelare la sua auto- riflessività. È stata una decisione dura mettere me stessa nel film, ma era l’unica via onesta per mostrare la realtà in un documentario.