Viviamo una fase storica nella quale prevalgono i luoghi comuni; è un fatto negativo non casuale, e quanto la politica continua a proporci, specialmente in Italia, lo conferma.

La crisi globale – in atto oramai da nove anni, senza che se ne veda una via d’uscita – non riguarda solo le relazioni economiche e sociali, ma anche le teorie e le “visioni” di pensiero che hanno contribuito a determinarla; le quali, essendo ancora in auge, ostacolano la possibilità di riparare i danni che hanno provocato.

Questo duplice livello della crisi – dei rapporti economici e delle teorie che dovrebbero spiegarli e migliorarli – disorienta l’opinione pubblica, le sue scelte sociali e politiche, determinando un terzo livello della crisi che stiamo attraversando. Per superarla, occorrerebbe non solo definire una nuova e più adeguata “visione” (è pensabile che tanti suoi pezzi già esistano nel dibattito intellettuale), ma che essa si affermi in senso lato: non solo nel confronto culturale e nelle scelte economiche, ma anche nel senso comune dell’opinione pubblica e sulle modalità della sua interazione con gli equilibri politici, economici e sociali. Invece, nella fase di stallo in cui ci troviamo (una situazione logorante aperta a tutti gli sbocchi), l’opinione pubblica e una classe politica che propende più a carpirne opportunisticamente il consenso elettorale che a prospettare soluzioni anche lungimiranti ai problemi collettivi, tendono ad aggrapparsi a luoghi comuni desueti; i quali esprimono l’intreccio tra le vecchie idee e gli interessi che ha determinato la crisi, ma che tuttora rimane dominante, pur essendo da tempo evidente la sua incapacità di essere trainante e progressivo.

Se si guarda al panorama politico italiano, le “novità” degli ultimi anni – il renzismo e il Movimento 5 stelle – hanno in comune la forte dichiarazione di voler rompere con il passato (la “rottamazione” e il “cambieremo tutto”). E’ un messaggio che esprime la reale esigenza di superare lo stato di crisi e le cause che l’hanno determinato, ma viene tanto strillato quanto inadeguatamente accompagnato da i nuovi contenuti necessari a realizzare concretamente il cambiamento. Anche l’insofferenza variamente manifestata sia da Renzi che da Grillo verso la distinzione Destra/Sinistra (che pure richiede l’adeguamento delle due categorie, come in genere è necessario dopo crisi anche valoriali) per qualificare le loro opinioni e azioni, non è solo un atteggiamento strumentale ad ampliare lo spazio di ricerca del consenso; quella insofferenza tradisce anche la mancanza di una esplicita “visione” d’assieme delle singole posizioni assunte che sia sufficientemente chiara e realmente innovativa.

Una differenza tra le due “novità” è che il renzismo è al potere da qualche anno e il Movimento 5 stelle ancora no; cosicché, la “visione” del primo anche se non viene esplicitata, è comunque rintracciabile ex-post nelle sue scelte di governo, le quali – rimanendo in ambito economico – ripercorrono le stesse linee delle politiche che hanno alimentato il nostro declino nel passato ventennio: la ricerca della competitività fondata sulla riduzione del costo del lavoro e non sull’aumento della qualità e dei contenuti tecnologici; il contenimento della spesa sociale erroneamente vista come un lusso che non potremmo permetterci e non come lo strumento consolidato per migliorare sia le condizioni dell’offerta (capitale umano, reti di sicurezza che favoriscono l’intrapresa di attività innovative e rischiose, ecc.), sia quelle della domanda; le privatizzazioni anche in settori strategici e del welfare in omaggio ad una visione liberista dei rapporti stato-mercato che ignora anche l’evidenza empirica dei fallimenti del secondo accentuata dalla crisi.

La riproposizione di queste ricette stantie e controproducenti, ma ammantate di dinamico nuovismo, ha avuto successo anche in parte dell’opinione pubblica progressista. Il protrarsi della crisi reale e ideologica senza l’emergere di progetti credibili di un suo superamento ha spinto il senso comune, da un lato, verso il ripiegamento conformistico sui vecchi luoghi comuni e, d’altro lato, verso un generico desiderio di cambiamento che in mancanza di contenuti adeguati risulta altrettanto convenzionale. E non è strano che in entrambi i lati siano presenti portatori di istanze sia progressiste sia conservatrici o addirittura involutive.

Il Movimento 5 stelle, quando promette di “cambiare tutto”, corrisponde ad una esigenza giustamente sentita, ma non avendo avuto, almeno finora, la stretta necessità di precisare come intende farlo e in quale direzione rispetto alla geografia delle idee e degli interessi, rende più difficile individuare la sua “visione”. Insistere sulla necessità di rimuovere gli effetti degenerativi esercitati sulle scelte economiche, sociali e politiche dal degrado delle loro precondizioni civili e di legalità è indubbiamente reso urgente dal basso livello cui esse sono giunte. Ma queste intenzioni di risanamento propedeutico, oltre che bisognose di essere messe alla prova, per quanto rese strettamente necessarie dal degrado della situazione attuale, non sono anche sufficienti ad assicurare prima la rimozione delle cause che hanno portato alla crisi e poi il suo superamento in senso progressivo. In ogni caso, la politica non può essere solo ordinaria amministrazione, anche perché la possibilità di gestire bene quest’ultima non è estranea a come s’impostano questioni quali i rapporti tra stato e mercato, tra i diritti individuali e quelli collettivi, tra la crescita del benessere (non solo la ricchezza materiale) e le regole più o meno equitative della sua distribuzione, tra gli aspetti economici, sociali e ambientali dello sviluppo.

I luoghi comuni, come il buon senso, possono persino essere utili nella gestione ordinaria in periodi di relativa stabilità degli equilibri economici, sociali, politici e culturali, ma costituiscono un freno e diventano fuorvianti in fasi di cambiamento imposti da crisi che coinvolgono più di uno o l’insieme di quegli equilibri.