C’è sempre un’inquietudine soffocata nei romanzi di Sebastiano Nata, che la sua scrittura nitida, esatta, sigilla. Un malessere sotterraneo che non grida, e implacabile attanaglia le vite dei personaggi, che sono sempre borghesi romani, agiati e annoiati, colti tra crisi matrimoniali fatte d’ipocrisia e sotterfugi, segnati da fisiologici tradimenti, ma anche da dolorose delusioni umane e sentimentali. Come in altri indimenticabili libri dell’autore romano, fin dall’esordio de Il dipendente, vero e proprio caso letterario, e poi La resistenza del nuotatore, Mentre ero via, tra gli altri, anche in Tenera è l’acqua (Atlantide, pp. 208, euro 20) al centro della narrazione c’è un alter ego manager di una multinazionale di carte di credito, Transpay, sempre in bilico tra vitalismo e perdita, soprattutto nelle relazioni famigliari e affettive. Ma l’adrenalinico Michele Garbo oggi si è trasformato Giacomo Casani, e come tutti i personaggi di Nata è una spugna sensibile del proprio tempo, in un mondo globalizzato dove tutti siamo legati, persone, mercati e destini, un vedovo che da brillante dirigente in prima linea è retrocesso e ora fa un lavoro di bussiness etico con il World Food Programme, come da fulgido campione olimpionico dei 200 delfino della sua prima vita, ha abbandonato la carriera agonistica e ora nuota tra i vecchi Master 60M.

NELLE PISCINE incrocia Paola e Mattia, le vasche diventano esistenziali come quelle de Il nuotatore di Cheever. Le vite svogliate da loro vissute nei salottini eleganti di una Roma intima, appartata, dove la ricchezza e l’agio però non sono mai esibiti, ma addirittura vissuti con un senso di colpa da adulti che una volta, prima dell’integrazione, sono stati ragazzi ribelli, insomma la vita del primo mondo, quello dell’Occidente opulento, industrializzato, consumistico incrocia l’apocalisse dei migranti, «I quasi mille morti del barcone che si era ribaltato davanti alle coste libiche» visti in televisione, e il mondo terzo oltre la frontiera che divide nord e sud del pianeta è quello degli ultimi, dei derelitti, dei dannati della terra. Mondi che restano separati all’inizio del libro, fin quando Giacomo non parte in missione di lavoro per l’Etiopia e allora si mescolano, diventano improvvisamente uno solo, la narrazione romanzesca incrocia il reportage di viaggio, le letture di Malaparte e Kapuscinsky sono propedeutiche, visita villaggi, scuole, ma gli sembra di «trovarsi in un altro pianeta».

SPIETATAMENTE lucido e con una lingua calibrata, spezzata da dialoghi secchi ed efficaci, il narratore tiene questi due mondi distanti, Casani in Africa resta comunque dentro uno spaesamento: «Sembrava che dagli uomini o dalle donne che aveva visto o incontrato durante la giornata lo separasse un vetro che poteva rompersi per un istante, e allora era come se dei frammenti appuntiti gli entrassero nella carne, ma poi subito si ricomponevano e ciò che restava al di là del vetro rimaneva esterno, completamente separato». Anche i pasti diventano inevitabilmente un business: «ciò che contava davvero era la facilità con cui potevano essere venduti ai finanziatori. Chi non si intenerisce davanti a una madre che offre il seno? A una scolaresca che, corre alla mensa per consumare l’unico pasto della giornata?», pensa il protagonista, provando alla fine «un desiderio di oblio mescolato a un impulso di rivolta». Adesso, prima di rientrare nella vasca della piscina e dentro la vita, Casani sa di non avere «certezze né una vocazione». Gli resta, come a molti di noi, una sola cosa: fare «il suo pezzettino».