Per il cinema oggi, è sempre più difficile competere con quella macchina dell’efficenza e della velocità che è internet. A dirlo è Lars Henrik Gass, intellettuale curioso, autore del libro Film und Kunst nach dem Kino, in cui ha delineato il declino del cinema come spazio di costruzione dell’immaginario collettivo e le sue nuove forme di percezione e fruizione, e direttore del Festival internazionale del cortometraggio di Oberhausen. «Nella società contemporanea – aggiunge – dove la molteplicità di dispositivi che permettono la visione e la distribuzione dei film è sempre maggiore, è necessario riflettere su come il cinema può riuscire a cambiar pelle e a rimanere un linguaggio significativo anche nel prossimo futuro. Nella società contemporanea la pervasività dei dispositivi mobili, che determinano visioni private dal proprio computer o smartphone, hanno cambiato il paradigma della fruizione cinematografica, ed un mutamento che non possiamo negare e con cui è necessario confrontarsi».

Il Festival internazionale di Oberhausen è la più antica e prestigiosa manifestazione annuale dedicata al cortometraggio che ha sempre saputo captare i sommovimenti e gli sviluppi del cinema. Nell’edizione del 1962, fu redatto il «Manifesto di Oberhausen», firmato da ventisei giovani cineasti tra cui Edgar Reitz, Peter Schamoni, Volker Schlondorff, Alexander Kluge, e l’attore Christian Doermer, il testo voleva sottolineare la necessità di creare film sperimentali e non-fiction, svincolati da generi narrativi consolidati e da logiche commerciali. Manifesto che portò alla creazione del Consiglio del giovane cinema tedesco, ente statale che finanzia progetti di giovani filmmaker, e alla nascita del Nuovo Cinema Tedesco, con gruppo di registi che rifiutava ogni compromesso con la storia e l’eredità del passato nazionalsocialista.

Fin qui la storia, ma il presente del festival è altrettanto vivace e interdisciplinare, e quattro nuove sezioni sono state inaugurate all’ultima edizione del festival lo scorso maggio per indagare i cambiamenti in atto.
La sezione «Labs» ha presentato il lavoro di diversi laboratori europei indipendenti che si occupano della conservazione e dello sviluppo, produzione e distribuzione di film in Super 8. Laboratori attivi in diverse città europee: L’Abominable a Parigi, a Barcellona Crater Lab, a Vienna filmkoopwien e a Rotterdam filmwerkplaats. La scelta del Super 8 diviene per filmmaker e operatori del settore un atto di resistenza nei confronti del predominio e della dittatura del digitale.

Anche la sezione «Conditional Cinema», un progetto dell’artista e filmmaker finlandese Mika Taanila, che avrà la durata di tre anni, smentisce le promesse che il cinema del futuro sia determinato unicamente da proiezioni in 3D o con visori di realtà virtuale. Taanila ha presentato un programma in cui il cinema è stato interpretato come dispositivo che permette una diversa esperienza cinematica, di tipo partecipativo e immersivo. Un esempio è stata la presentazione del The Filmers’ Almanac. Esperimento cinematografico del compositore e regista Owen O’Toole, che nel 1988 aveva chiesto a diversi registi di girare un breve film in Super 8, che poi avrebbe assemblato per comporre un almanacco cinematografico, seguendo la modalità diaristica della mail art.

Per celebrare il trentennale dell’esperimento, la proiezione è stata accompagnata dalla colonna sonora originale. Il live cinema ST*R, dell’artista Peter Miller ha permesso al pubblico presente in sala di interagire con lo schermo cinematografico, mentre Anton Nikkilä ha creato un soundscape che dialogava con la proiezione del suo film astratto.
Lontano dal display post-cinematografico di «Conditional Cinema», la nuova sezione «Re-selected» ha esplorato l’archivio dei film del festival di Oberhausen. Dopo le proiezioni di film memorabili come Notte e nebbia di Alain Resnais e di Elegia di Zoltán Huszárik, per ricordarne solo alcuni, archivisti e storici hanno parlato della diversa ricezione dei film a seconda del pubblico presente in sala e dello stato di conservazione delle pellicole, oltre al fatto che questi capolavori del cinema sono diventati nel corso del tempo dei «luoghi portatili della memoria» come ha scritto Sylvie Lindeperg.

L’altra nuova sezione «Lectures» raccoglieva artisti, registi e architetti come Marisa Olson, Liam Young e Roee Rosen, per parlare di cinema e arti visive con modalità sperimentali, non conferenze accademiche né semplici film screening.
Si è parlato a lungo delle relazioni interdisciplinari del cinema in Leaving the Cinema. Ogni anno il festival propone un programma tematico legato a diversi contesti geopolitici e estetici della storia del cinema. Quest’anno il tema era legato a filmmaker come Hartmut Bitomsky, Harun Farocki, Hellmuth Costard, Stephen Dwoskin, che già dalla fine degli anni ’60 si sono interrogati sui possibili altri display del cinema, dalle multi proiezioni all’expanded cinema, all’attivismo politico, oltre all’esplorazione del white cube della sala espositiva o dello spazio museale.

Istanze esplorate anche dai quattro filmmaker a cui erano dedicati i singoli film brevi programmati: la portoghese Salomé Lamas (Coup de Grâce; Golden Dawn; Theatrum Orbis Terrarum; A Torre; Ubi Sunt), la brasiliana Louise Botkay (da Mammah, 2008 a Área de serviço, Nomades e Enlaces, 2018), la tedesca Eva Könnemann (tra gli altri i corti Material Betone e Das Offenbare Geheimnis), e i rumeni Mona Vatamanu & Florin Tudor, artisti che espongono le loro opere sia in ambito artistico sia cinematografico.