Gli eventi catastrofici hanno un effetto dirompente, più o meno grave, a seconda della loro portata e durata, su quella complessa macchina sociale che chiamiamo economia. Che si tratti di terremoti, di guerre o di epidemie, incidono sulla struttura demografica, sull’apparato produttivo, sui livelli dei consumi, sulle risorse naturali e sulle infrastrutture, almeno nei primi due casi. Nonostante, tuttavia, la loro frequenza e rilevanza sulla vita delle società, solo per le guerre esiste una vasta memoria e pubblicistica storica – non nel caso dei terremoti, così frequenti nella nostra storia e in quella delle regioni mediterranee, né delle epidemie e pandemie.

EPPURE, COME RICORDA Tonino Perna nel suo recente Pandeconomia. Le alternative possibili (Castelvecchi, pp. 76, euro 8) nei paesi del «Sud-Europa, ci sono Madonne e Santi che sono venerati come protettori di città e borghi antichi perché almeno una volta li hanno salvati dalla peste, dal colera e altre pandemie. Nel tempo, nella memoria collettiva si è persa l’origine di questi riti religiosi, che ormai vengono vissuti come giorno di festa».

DEL PARI ASSENTE o assai scarsa, nonostante il loro rilievo nella vita delle popolazioni, è inoltre la ricognizione e l’elaborazione teorica sull’impatto che fenomeni comunque catastrofici hanno avuto sulla struttura economica coinvolta. Giusto sugli effetti della guerra, l’autore ricorda un accenno di Adam Smith e le riflessione, in età contemporanea, di Walter Rathenau e John M. Keynes. Il grande intellettuale tedesco, manager industriale e ministro della Ricostruzione e poi degli esteri, in Germania, fu il primo economista nel ’900 a occuparsi delle dinamiche dell’«economia di guerra» e a trarne delle conseguenze rilevanti. In breve, dalla sua diretta esperienza di manager e di ministro osservò, scrive Perna, alcune trasformazioni «fondamentali che riscontriamo oggi nell’economia della emergenza, o meglio nella ’pandeconomia’ che stiamo vivendo. La prima è la messa in discussione, o comunque la riduzione dei processi di globalizzazione. La seconda è una conseguenza di questi processi di de-globalizzazione con una ripresa di ruolo e valore del mercato interno. La terza riguarda il potere dello Stato che si rafforza e delle istituzioni che sono obbligate a trasformarsi», offrendo la possibilità di una economia di piano.

PARADOSSALMENTE, per citare le parole con cui Keynes riprende Rathenau, «riusciremo così a cogliere l’occasione della guerra per realizzare un progresso sociale positivo». Naturalmente la parte centrale del testo si concentra su quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. E l’autore avvia una rapida ricognizione ponendosi l’interrogativo: «È legittimo domandarsi: questa pandemia tende a incrinare o rafforzare il finanzcapitalismo? Ovvero: le trasformazioni economiche causate da questa epidemia quali ripercussioni, di medio-lungo periodo, avranno sul modo di produzione capitalistico, nell’era dell’egemonia finanziaria?».
La risposta al quesito, problematica, prende in considerazione fenomeni in atto, ma anche previsioni di medio periodo, come la caduta del Pil delle varie economie nazionali, il crollo dell’occupazione, la paralisi di alcune componenti fondamentali dell’economia globale, come il turismo, ma nello stesso tempo l’ incremento sempre più dispiegato del capitalismo delle piattaforme. Una estensione del processo di accumulazione e al tempo stesso «il modo con cui si sta trasformando il capitalismo finanziario, sempre meno visibile e controllabile. Piattaforme digitali che diventano i custodi e padroni dei nostri dati sensibili, delle nostre scelte di consumo, della nostra vita».
Non mancano tuttavia le conseguenze positive. La paralisi dell’attività economica, ad esempio, ricorda Perna, «tra riduzione dell’inquinamento, delle vittime sul lavoro e sulla strada, ha salvato qualcosa come 420mila persone, di tutte le età e di tutti paesi del mondo che hanno adottato misure di contenimento della mobilità delle persone e della produzione di merci».

QUANTO AGLI SCENARI auspicabili, Perna sottolinea la ripresa, in tempo di crisi, delle economie di prossimità, quelle fondate sulla piccola agricoltura, sull’accorciamento della filiera agro-alimentare, il piccolo commercio, la vita di quartiere e la rivitalizzazione del territorio. In tale direzione si muove la necessaria rivalutazione delle aree interne e una nuova politica per le città, oggi svuotate della loro vita pubblica e selvaggiamente mercificate. Infine, la rivalutazione dei sentimenti di solidarietà promossa dal drammatico imperversare delle morti, dovrebbe animare i comportamenti anche in tempi normali e ispirare la condotta economica dei cittadini, tanto sul piano produttivo che su quello dei consumi.